Perché Kerry ha fallito in Medioriente
di Stefano Magni
Il 29 aprile sarebbe dovuto essere l’ultimo giorno utile per chiudere un accordo fra Autorità Nazionale Palestinese e Israele. Sono passate 24 ore da quella scadenza e l’unico accordo firmato in Medio Oriente è quello fra i due partiti palestinesi, Al Fatah e Hamas, volto a formare un fronte unitario contro Israele. Non solo la situazione non è migliorata, ma è addirittura peggiorata. Mentre Barack Obama è ancora in Asia orientale, ad arbitrare il fallito negoziato è il suo segretario di Stato, nonché ex candidato alle presidenziali del 2004: John Kerry.
Constatato il fallimento completo dei colloqui da lui stesso avviati, ad Amman, alla fine del 2013, il ministro democratico non trova niente di meglio da dire che una frase che sprizza pessimismo offensivo: “Ribadiremo la soluzione dei due Stati come l’unica vera alternativa. Perché uno Stato unitario (israeliano, ndr) finisce per essere uno Stato in cui vige l’apartheid, con cittadini di seconda classe, oppure uno Stato che nega a Israele la capacità di essere uno Stato ebraico”. Lo ha detto proprio quando si celebrava la memoria delle vittime della Shoah, dimostrando una sensibilità pari a quella di un elefante nella cristalleria. La reazione non si è fatta attendere. Protesta da parte del governo Netanyahu, protesta del Partito Repubblicano e sollevazione dell’opinione pubblica ebraica e filo-israeliana in America, che è quasi tutta formata da elettori del Partito Democratico. Un disastro su tutta la linea.
Ieri John Kerry, di fronte alla raffica di critiche, si è scusato pubblicamente affermando che “se potessi riavvolgere il nastro, userei una parola diversa”. Probabilmente gli elettori democratici (negli Stati Uniti) si accontenteranno di queste scuse e continueranno a votarlo. Ma, a ben guardare, scuse non sono, perché non è certo la singola parola “apartheid”, ma la logica del suo ragionamento. Riassumendo in poche parole: per Kerry, il problema è solo Israele. Questa tendenza è confermata anche da una precedente gaffe pronunciata da Kerry, quando i negoziati erano ancora aperti, nel momento in cui aveva detto che, in caso di un loro fallimento, non avrebbe potuto contrastare un boicottaggio internazionale contro Israele.
Era una velata minaccia. Un po’ come quando un boss ti “suggerisce” di fare come dice lui, altrimenti “non assicura l’incolumità” della vittima. E così era stata intesa in Israele. Da questo modo di ragionare, si può ben dedurre tutta la visione che i progressisti americani hanno della crisi in Medio Oriente. Secondo questa analisi la coesistenza sotto uno Stato democratico israeliano è impossibile. Stato ebraico e Stato arabo-palestinese devono essere divisi. Non perché vi sia una ostilità genetica fra i due popoli, ma perché gli israeliani, a un certo punto della loro storia (la Guerra dei Sei Giorni del 1967) hanno occupato (liberato) i territori del Golan, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. L’origine del male, per i democratici, è solo quella. Questa percezione è anche la stessa che ha caratterizzato alcuni dei colloqui fra Obama e Netanyahu. Come nel 2011, quando il presidente Obama disse (poche ore prima che giungesse a Washington il suo ospite) che Israele, per risolvere il problema, avrebbe dovuto ritirarsi entro i confini pre-1967. È chiaro che, se il peccato originale è l’occupazione dei territori nel 1967, se il problema irrisolto è la vittoria israeliana nella Guerra dei Sei Giorni, la soluzione è il ritiro israeliano. Il mancato ritiro israeliano, secondo Kerry, porterebbe alla “segregazione” (apartheid) degli arabi che vivono nei territori, o la vendetta araba contro gli israeliani.
Gli israeliani, tuttavia, vedono la loro storia da una prospettiva un po’ diversa. E non hanno tutti i torti. Prima di tutto ricordano perché scoppiò la Guerra dei Sei Giorni. Siria, Giordania ed Egitto (e altri alleati esterni, fra cui l’Iraq) tentarono di distruggere Israele, di invaderlo e di spartirselo. Israele ebbe la capacità di prevenirli e sconfiggerli, prima che fosse troppo tardi. La Guerra dei Sei Giorni non fu il primo né l’ultimo conflitto di sopravvivenza dello Stato ebraico, che già aveva rischiato l’estinzione nel 1947-48 e la rischiò di nuovo quando venne invaso nel 1973. Solo la presunta acquisizione di armi atomiche da parte israeliana impedisce ai regimi arabi circostanti di compiere un altro tentativo, ma non di fornire armi e fondi alla guerriglia locale, coordinata da movimenti armati palestinesi. L’ideologia nazionalista araba è stata in gran parte soppiantata da quella islamica jihadista. Ma l’obiettivo di distruggere Israele è ancora esplicito, scritto nero su bianco nello statuto di entrambi i movimenti palestinesi. E cambia nulla che il leader di Al Fatah, nonché presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) dichiari che la Shoah sia “il peggior crimine contro l’umanità”: il programma del suo partito non è cambiato. I movimenti palestinesi hanno semplicemente accettato la fase intermedia della spartizione territoriale: Cisgiordania e Gaza sotto un’autorità autonoma e il resto spetta a Israele. Ma l’obiettivo finale è sempre una Palestina unita, araba e islamica, dal Giordano al Mediterraneo, da Eilat al confine libanese, da Tel Aviv al confine giordano.
Il problema è dunque l’occupazione israeliana? O non, piuttosto, il programma dei movimenti armati palestinesi? È per fronteggiare la minaccia di questi ultimi, autori di migliaia di attentati contro civili inermi, che gli israeliani hanno adottato misure di sicurezza straordinarie, fra cui la costruzione della barriera difensiva (o “muro”). Ma di sicurezza si tratta, non di segregazione. Non c’è alcun apartheid nei confronti degli arabi che vivono in Israele. Non c’è alcuna discriminazione nei confronti degli arabi palestinesi (quelli che vivono nei territori), i quali possono avvalersi di servizi pagati dal contribuente israeliano. C’è semmai un difficile tentativo di spartirsi competenze fra i territori controllati dall’ANP, quelli controllati dal governo di Gerusalemme e quelli ad amministrazione mista. Ma non c’è alcuna segregazione etnica o religiosa. Anche in caso di permanenza di uno status quo senza confini concordati, non vi sarebbe discriminazione razziale: sono troppo ininfluenti i partiti israeliani che la vorrebbero e troppo forti le opposizioni. Se, al contrario, si dovesse arrivare all’unificazione di tutto il Paese sotto un’autorità palestinese, gli ebrei non vi troverebbero più posto. Prova ne è che gli insediamenti ebraici in terra palestinese [Giudea e Samaria] (quelli che Kerry considera il peggior ostacolo alla pace) continuano ad essere sotto attacco, isole ebraiche circondate da un mare di ostilità. È in uno di questi insediamenti, a Hebron, che una famiglia intera israeliana è stata attaccata a raffiche di mitra, lo scorso 14 aprile (il padre, un poliziotto, è morto, moglie e figli feriti gravemente), l’episodio che ha aperto l’ultima crisi prima del fallimento dei negoziati (in realtà la vittima era di Modi’in e si stava semplicemente recando alla cena per festeggiare l’inizio di Pesach, la Pasqua ebraica). Al contrario, gli arabi che vivono in terra israeliana, in mezzo agli ebrei, non sono vittime di attentati.
Dalla settimana scorsa, Hamas e Fatah sono ufficialmente alleati. Entrambi, come abbiamo visto, hanno l’obiettivo finale di liquidare Israele. Il che significa, fuor di metafora: cacciare gli ebrei dal Medio Oriente. Invece di mostrare una decisa solidarietà nei confronti di un alleato minacciato, Kerry ha pensato bene di accusarlo di razzismo. E gli israeliani dovrebbero accettarlo ancora come arbitro dei negoziati?
(Fonte: L’Opinione.it, 1° Maggio 2014)
Nella foto in alto: il segretario di stato americano John Kerry
#1Emanuel Baroz
Le condizioni che dovrebbe porre Israele
I palestinesi pongono condizioni come se fosse una concessione trattare con Israele. Invece è Israele che dovrebbe mettere sul tavolo una serie di precise richieste
di David M. Weinberg
L’Autorità Palestinese ha avanzato tutta una serie di nuove condizioni per acconsentire a prolungare i negoziati di pace con Israele (come se fosse Israele che deve implorare i palestinesi di sedere al tavolo delle trattative di pace). Le pretese – che vanno dalla richiesta di una lettera in cui Israele si impegni ufficialmente ad accettare i confini che vuole la controparte compresa la spaccatura in due di Gerusalemme, alla scarcerazione di 1.200 detenuti tra cui capi terroristi come Marwan Barghouti e Ahmad Sa’adat, all’abbandono di qualunque controllo di sicurezza sui transiti al confine con la striscia di Gaza e nelle aree della Cisgiordania sotto controllo palestinese, alla riapertura di istituzioni palestinesi create a Gerusalemme est in violazione degli accordi di Oslo come la Orient House, al congelamento delle attività edilizie ebraiche, a migliaia di autorizzazioni per “ricongiungimenti familiari palestinesi” e altro ancora – si possono essenzialmente riassumere in un concetto: Israele deve arrendersi alle pretese palestinesi ancor prima di negoziare.
Se è così che funziona la trattativa e i palestinesi possono avanzare richieste così inverosimili, non si vede perché Israele non dovrebbe mettere sul tappeto sin dall’inizio le sue richieste e le sue condizioni. Per comodità di chi ci legge, elenchiamo qui di seguito una serie di questioni importanti per Israele, molte delle quali potrebbero essere poste come condizione preliminare perché Israele continui a negoziare con i palestinesi un accordo di pace definitivo.
Soluzioni a livello regionale. Un principio essenziale di qualsiasi quadro per la ripresa dei negoziati dovrebbe essere la presa in considerazione di nuovi approcci per risolvere il conflitto, il che significa mettere sul tappeto una eventuale sovranità condivisa in Cisgiordania, o la creazione di una federazione giordano-palestinese, o reciproci scambi di territori a tre o a quattro con il coinvolgimento di Egitto e la Giordania, o eventualmente una combinazione di due o più di queste idee. In altri termini, gli stati arabi devono dichiarare la disponibilità ad assumersi la loro parte di responsabilità per la soluzione di un conflitto in cui hanno storicamente giocato un fondamentale ruolo negativo, e ad investire risorse tangibili per possibili soluzioni a livello regionale del conflitto israelo-arabo-palestinese.
Finalità. Israele dovrebbe esigere una lettera in cui l’Autorità Palestinese riconosca esplicitamente che l’obiettivo dei negoziati è arrivare a una soluzione che comporti la cessazione di tutte le rivendicazioni e le pretese fra le parti, e che qualsiasi eventuale futuro accordo dovrà contenere una esplicita dichiarazione di fine del conflitto. Solo un chiaro ed inequivocabile messaggio da parte palestinese che il conflitto è permanentemente e totalmente terminato meriterà una cessione di territori da parte di Israele.
Striscia di Gaza. Israele dovrebbe stabilire in anticipo che l’applicazione di qualunque eventuale accordo raggiunto con l’Autorità Palestinese del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sarà subordinata all’estensione di tale accordo alla striscia di Gaza, il che significa che Hamas dovrà essere messa fuori gioco oppure dovrà firmare l’accordo in questione. Israele non ha nessun motivo per avallare la nascita di due “stati palestinesi” (uno che negozia e l’altro no).
Insediamenti. Come condizione per riavviare i negoziati con l’Autorità Palestinese Israele dovrebbe chiedere che i leader palestinesi riconoscano la legittimità e la permanenza dei principali blocchi di insediamenti in Cisgiordania e accetti la crescita naturale di queste città e cittadine che – come sanno tutti coloro che hanno un minimo di conoscenza delle trattative e delle possibili soluzioni – sono destinate a rimanere sotto piena sovranità israeliana nel quadro di qualunque realistico accordo di pace.
Monte del Tempio (a Gerusalemme). I palestinesi devono dichiarare la disponibilità a negoziare una sovranità condivisa sul luogo più sacro per il popolo ebraico. Tanto per cominciare, una pre-condizione di Israele per continuare i negoziati potrebbe essere la possibilità (oggi negata) agli ebrei di pregare sulla spianata del Tempio. Una piccola e discreta sinagoga ai margini della spianata, ad esempio, non metterebbe certo in ombra i due grandi edifici di culto musulmani che vi si trovano, ma dimostrerebbe concretamente il riconoscimento da parte palestinese degli antichi e profondi legami del popolo ebraico con il luogo sacro, la città di Gerusalemme e la Terra Santa. Inoltre, da parte islamica e palestinese dovrebbero essere concordate nuove intese per la conduzione e supervisione congiunta di restauri e scavi archeologici sul Monte del Tempio.
Il “Triangolo”. Dovrebbero essere messi chiaramente sul tappeto eventuali scambi di territori, con le popolazioni che vi risiedono, compreso l’eventuale trasferimento sotto sovranità del futuro stato palestinese della zona detta del Triangolo (a sud-est di Haifa, a ridosso della ex linea Verde armistiziale pre-‘67 e dunque della Cisgiordania settentrionale). Le centinaia di migliaia di arabi israeliani che vivono in città come Kafr Qara, Umm al-Fahm, Tayibe e Qalansawe insistono comunque a definirsi “palestinesi”, per cui a rigor di logica il passaggio delle loro città sotto controllo e cittadinanza palestinese non farà che accrescere l’omogeneità demografica e la stabilità di qualsiasi futuro accordo israelo-palestinese “a due stati”.
Riparazioni. Israele ha subito decenni di guerra, crimini di guerra, estrema violenza terroristica e boicottaggi economici lanciati da palestinesi e stati arabi, che hanno causato notevolissime sofferenze e privazioni al paese e alla sua popolazione. L’agenda della pace dovrebbe prevedere un risarcimento a Israele da parte dei nemici che hanno cercato invano di distruggerlo. Dopo tutto i palestinesi avrebbero potuto avere il loro stato a fianco di Israele sin dal lontano 1947 se essi e il mondo arabo non avessero rifiutato con la violenza il piano di spartizione dell’Onu e, dopo di allora nel corso degli ultimi vent’anni, almeno altre tre offerte concrete da parte di Israele per la nascita di uno stato palestinese. Le riparazioni economiche a Israele dovrebbero avere un posto centrale in tutti i prossimi colloqui di pace, insieme alla negoziazione dei dovuti risarcimenti da parte degli stati arabi verso gli ebrei che furono espulsi dai paesi arabi.
Educazione alla pace. Un presupposto irrinunciabile per i negoziati dovrebbe essere l’avvio di un piano intenso, ampio e prolungato di educazione alla pace nella Cisgiordania controllata dall’Autorità Palestinese e nella striscia di Gaza controllata da Hamas. I cuori e le menti dei palestinesi devono essere preparati alla coesistenza, all’accettazione reciproca e alla pace. L’istigazione contro Israele, i sermoni antisemiti e la glorificazione della violenza contro gli israeliani devono cessare. Alla fine, la negazione della connessione storica fra ebrei e Terra d’Israele dovrà essere sostituita, per quanto difficile, da uno sfumato riconoscimento del sogno sionista che percorre tutta la storia dai tempi della Bibbia sino ai nostri giorni.
In caso contrario, niente concessioni e niente ritiri.
(Fonte: Israel HaYom, 18 Aprile 2014)
http://www.israele.net/le-condizioni-che-dovrebbe-porre-israele
#2Parvus
Dopo aver espresso l’apprezzamento per l’articolo, vorrei aggiungere che c’è un problema contingente ed uno strutturale. Il primo problema è che Obama e Kerry simpatizzano apertamente per i palestinesi, e questi vogliono approfittarsene. Il secondo è che i palestinesi non hanno come sogno il ventitreesimo stato arabo, ma il ripristino dell’unità territoriale araba ed islamica dall’oceano Atlantico al limite orientale della religione islamica.
Di fronte a questa situazione per Israele è “urgente aspettare” Fra un anno e mezzo, potrebbero essere i palestinesi ad avere l’affanno di concludere prima che alla Casa Bianca arrivi un inquilino più amico di Israele, fra quindici anni sarà divenuto molto più evanescente il “diritto” di ritorno dei palestinesi, dato che già ora, la maggioranza di loro, oltre a non essere nata in Israele, non ha ne il padre ne il nonno nati in questa terra.
Perciò Israele per adesso deve avere la forza ed il coraggio di dire no. Entro un ragionevole tempo, dovrà avere a forza ed il coraggio di dire: Accetto di ritirarmi su confini sicuri restituendo l’equivalente di quanto conquistato nel 1967, ma non molleremo un metro fintanto che i palestinesi avranno riconosciuto che Israele è Stato ebraico, e riconosciuto le sue frontiere. I problemi religiosi per le terre che verranno abbandonate, li risolverà il Messia quando verrà. Questa generazione vi ha gettato il seme della testimonianza per un anno Sabbatico.
#3Parvus
Dopo aver espresso l’apprezzamento per l’articolo, vorrei aggiungere che c’è un problema contingente ed uno strutturale. Il primo problema è che Obama e Kerry simpatizzano apertamente per i palestinesi, e questi vogliono aprofittarsene. Il secondo è che i palestinesi non hanno come sogno il ventitreesimo stato arabo, ma il ripristino dell’unità territorriale araba ed islamica dall’oceano Atlantico al limite orientale della religione islamica.
Di fronte a questa situazione per Israele è “urgente aspettare” Fra un anno e mezzo, potrebbero essere i palestinesi ad avere l’affanno di concludere prima che alla Casa Bianca arrivi un inquilino più amico di Israele, fra quindici anni sarà divenuto molto più evanescente il “diritto” di ritorno dei palestinesi, dato che già ora, la maggioranza di loro, oltre a non essere nata in Israele, non ha ne il padre ne il nonno nati in quella terra.
Perciò Israele per adesso deve avere la forza ed il coraggio di dire no. Entro un ragionevole tempo, dovrà avere a forza ed il coraggio di dire: Accetto di ritirarmi su confini sicuri restituendo l’equivalente di quanto conquistato nel 1967, ma non molleremo un metro fintanto che i palestinesi avranno riconosciuto che Israele è Stato ebraico, e riconosciuto le sue frontiere. I problemi religiosi per le terre che verranno abbandonate, li risolverà il Messia quando verrà. Questa generazione vi ha gettato il seme della testimonianza per un anno Sabbatico.