Auschwitz e l’olocausto. Una domanda senza fine

 
Emanuel Baroz
27 gennaio 2011
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Il senso della memoria

Auschwitz e l’olocausto. Una domanda senza fine

di Riccardo Calimani

La Giornata della memoria ci costringe a riflettere su avvenimenti lontani per coglierne un ammonimento. Ricordare è porsi domande senza fine e non pretendere che le risposte siano definitive, perché alla domanda «come è stato possibile?» non si può dare una risposta convincente. Lo sterminio ebraico fu unico, ma in un quadro generale di violenza e di terrore, e occorre ricordare, purtroppo, che molti governi, nel ’43- ’44, sapevano quello che stava accadendo, ma non fecero quasi nulla. Esiste oggi l’antisemitismo? Anche qui non ci sono, né ci possono essere, risposte univoche. Il pregiudizio esiste ed è diffuso non solo contro gli ebrei, ma anche verso numerosi gruppi sociali. Tutti ne siamo colpiti, perché si tratta di una generale legge di economia del pensiero: quando il malessere sociale aumenta occorre uno sfogo per l’aggressività degli scontenti. In Italia gli ebrei sono venticinquemila, ma l’Eurispes – in una inchiesta di qualche tempo fa – ci ha dimostrato che molti sono convinti che gli ebrei siano tanto importanti da condizionare il paese.

Nel Veneto di mezzo secolo fa due giovani ebrei in fuga sono stati salvati da mille complicità. Erano i miei genitori. Quel Veneto di allora fu buono. Oggi lo sarebbe ancora? Un’oscura convinzione sottilmente si sta impadronendo di noi: i testimoni diretti sono quasi tutti scomparsi. Come faremo a ricordare? Non sono state le vittime a chiamarlo olocausto. Se lo si chiama con il suo nome, assassinio di massa, la repulsione è immediata. «Se invece – notava lo psicoanalista Bruno Bettelheim – viene designato con un termine tecnico inconsueto, bisogna prima tradurlo di nuovo nella nostra testa in un linguaggio emotivamente significativo ». È un modo per «padroneggiarlo intellettualmente laddove i fatti nudi e crudi (…) ci sopraffarrebbero emotivamente ». I nazisti stessi parlarono di «soluzione finale ». La Shoah ha colpito non solo milioni di ebrei, ma anche sinti e rom, omosessuali, disabili, malati mentali, antinazisti e innocenti civili. Dire che è stato un evento unico non vuole essere una fissazione ossessiva, né un pretesto per una concezione giudeocentrica della storia. Come mai un simile avvenimento ha potuto prodursi nel seno e dal seno di una civiltà universale illuminata ed umanista? Trovare una spiegazione, una volta per tutte, sarebbe comodo, perché ci permetterebbe di chiudere quel capitolo e smettere di soffrire. Ma chi non ricorda il proprio passato è destinato a riviverlo, ha scritto George Santayana, e nel caso della Shoah esiste un modo solo per ricordare: non concludere mai la ricerca e agire prima che accada, perché a nessuno accada mai più. Ecco perché il tentativo di alcuni storici di normalizzare l’eccezione deve essere guardato con rispetto, ma con grande diffidenza. Lo sterminio nel cuore d’Europa fu tragedia ebraica, anche se solo sei dei venti-ventiquattro milioni di vittime per ordine di Hitler erano ebrei, ma ogni uomo deve sentirsene partecipe.

E Auschwitz deve restare monito di tutta l’umanità: ha dimostrato che lo sterminio di massa è possibile. E l’idea che i responsabili rappresentino una malattia della nostra civiltà, e non un prodotto possibile di una società sempre in pericolo, diventa la consolazione di un’inerzia morale che non deve essere accettata. Richard L. Rubenstein, filosofo ebreo, ha scritto che il mondo dei campi di sterminio rivela il lato oscuro della civiltà ebraico cristiana (bah…..), e che sarebbe un errore credere che civiltà e crudeltà siano in antitesi. La stessa idea di soluzione finale è il prodotto di una mentalità burocratica tragicamente moderna. Coloro che presero parte alla Shoah non erano tedeschi di un tipo particolare. L’amministrazione delle SS trasformò in carnefici uomini del tutto normali e non predisposti alla violenza e li rese vittime essi stessi della brutalità che dominava la vita dei lager. Una SS disse a Primo Levi: «Hier ist kein warum», qui non c’è nessun perché. È proprio per questo che, dopo Auschwitz, i perché non possono mai cessare di esistere.

Corriere.it

Nella foto in alto: Auschwitz

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