Sami Modiano, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti racconta: “Mi sono salvato grazie a un carico di patate”

 
Emanuel Baroz
27 gennaio 2013
4 commenti

Sami Modiano, 83 anni, sopravvissuto ai campi nazisti, racconta 70 anni dopo

Mio padre a Birkenau mi disse: «Vado via, ma tu devi resistere»

Mi sono salvato grazie a un carico di patate. E adesso voi non potete dimenticare l’Olocausto

di Antonio Ferrari

A otto anni Sami Modiano era uno dei bambini più vivaci e brillanti della scuola elementare italiana di Rodi. Forse era in assoluto il primo della classe, come sostenevano i genitori dei suoi compagni, con quell’ammirazione espressa e così insistita da poter sconfinare facilmente nell’invidia. Sì, perché Sami, alunno eccellente, non aveva di sicuro l’aria e il comportamento del secchione. Nuotava, correva, giocava a calcio, scherzava, si divertiva, però a scuola gli bastava studiare il minimo per meritare il massimo.

Quella mattina, quando fu chiamato alla cattedra, si sentiva persino più sicuro e disinvolto del solito. Era pronto a rispondere alle domande del maestro ma il suo sorriso si spense subito perché l’insegnante, invece di interrogarlo, lo guardò come mai lo aveva guardato e gli disse: «Samuel Modiano, sei espulso dalla scuola!». Un ceffone morale umiliante, un vero choc, le gote di Sami si tingono di porpora, la gola si chiude. Con un filo di voce: «Ma che colpa ho?», «Che cosa ho fatto? Dove ho sbagliato?». Per far capire a quel bambino sbigottito e improvvisamente spaventato che non aveva fatto nulla di male, e che quel provvedimento non riguardava né il profitto né la condotta, l’imbarazzato maestro gli pose affettuosamente una mano sul capo e aggiunse a bassa voce: «Ora tornatene a casa, tuo padre ti spiegherà».

Sami Modiano, che oggi ha quasi 83 anni e che per decine di volte si è salvato per puro caso nella più efferata partita a scacchi con la morte, ha scritto un libro che ha per titolo la risposta – abbastanza ermetica – alla domanda che per decenni lo ha tormentato: Per questo ho vissuto. Che cosa voglia dire in realtà, Sami lo scrive nelle pagine della sua tremenda odissea. Pagine che grondano dolore, orrore, sevizie, umiliazioni, morte, torture, sterminio. All’inizio del racconto, ecco il punto da cui tutto ha avuto origine: «Quella mattina, a Rodi, mi ero svegliato come un bambino. La sera mi addormentai come un ebreo».

La storia del bambino-ebreo di Rodi trafigge il cuore e ferisce l’anima. È una storia che Sami, come quasi tutti i sopravvissuti all’Olocausto, aveva taciuto per quasi tutta la vita perché, nel raccontarla, la sofferenza era come raddoppiata: non bastava l’infarto emotivo della cronaca e dei ricordi incalcellabili delle sofferenze patite; il veleno aggiuntivo era provocato dall’incredulità espressa da molti di coloro che lo ascoltavano. «Guardandoli, sembrava mi volessero dire che non credevano alla mia storia. E questo, ancora una volta, mi feriva a morte». Alla fine, dopo molte titubanze, ha prevalso il dovere: di trasmettere ai giovani la vissuta testimonianza di quello che è stato l’Olocausto, nel cuore dell’Europa colta ed evoluta; e poi di onorare chi fu annientato dall’odio razziale degli aguzzini nazisti.

Leggi razziali a Rodi. Sami si è speso e si spende con generosità, passione, sdegno, ma anche con la lievità di chi non ha perduto il senso dell’umorismo. La sua storia si apre con le immagini di un’infanzia felice, in una famiglia felice, su un’isola felice, Rodi – conquistata dagli italiani, che l’avevano strappata ai turchi all’inizio del ’900 –. Immagini trasformate in poche ore, in quel maledetto 1938, in un incubo, costringendo le vittime a dover convivere da subito con l’ansietà, l’angoscia, la paura. E con la consapevolezza di essere il “diverso” che gli altri cercano di evitare, magari voltando il capo dall’altra parte.

Il padre di Sami che perde il lavoro, la madre uccisa da una grave malattia, la necessità di procurare cibo per il genitore e la sorella, la generosità che i soldati italiani nutrono per quel ragazzino nonostante le leggi razziali, la disoccupazione e la discriminazione che colpisce come una frustata la minoranza ebraica dell’isola. Chi poteva, dopo la promulgazione delle leggi razziali del ’38, lascia l’italiana Rodi per andare a vivere e a trovare un approdo più sicuro in America, in Argentina, in Canada, in Africa. In quattro anni, metà degli israeliti erano espatriati: gli ebrei rimasti superavano di poco i 2.000. Sami non capiva, era ancora un bambino, e non pensava che dopo qualche tempo avrebbe benedetto la prematura scomparsa della sua mamma. Morendo nel suo letto di dolore, la donna non avrebbe visto e patito il picco dell’orrore, a differenza del marito e dei figli. Il racconto dell’ingannevole convocazione degli ebrei di Rodi si raccorda subito con il calvario della deportazione. Un calvario simile a quello di tutti i correligionari dei Paesi occupati dalla macchina da guerra di Adolf Hitler, ma – nel caso dell’isola del Dodecaneso – con una feroce sofferenza aggiuntiva, il doppio viaggio verso la morte: il primo in mare, stipati su una chiatta maleodorante riservata al trasporto degli animali, sotto lo spietato sole di agosto, fino al porto di Atene; il secondo viaggio sul treno dell’infamia, nel buio soffocante dei vagoni per il bestiame. Destinazione la Polonia, i campi di sterminio.

Sami ormai ha poco più di 13 anni, ma ne dimostra alcuni di più. La famiglia, giunta a Birkenau, supera la prima brutale selezione: il cenno a sinistra del medico nazista, che giudicava a vista, voleva dire camera a gas e forno; il cenno a destra indicava i “privilegiati”, risparmiati perché giudicati adatti ai lavori più duri. In pochi giorni di internamento, quasi tutto diventa chiaro, anche nello sguardo ancora innocente di un ragazzino. La fugace e quotidiana visione di sua sorella, oltre la cortina di ferro attraversata dalla corrente, conforta Sami fino al giorno in cui non la vede più, e comprende che è andata all’infermeria, anticamera della morte. Suo padre, prostrato dal lavoro massacrante, dal freddo, dalla fame e dalle torture gli rivela, una sera, che ha deciso di farsi visitare, metafora che significa “non ce la faccio più”. Ma prima di consegnarsi agli assassini, impone al figlio di tenere duro. «Sami, tu sei forte. Devi farcela. Ce la farai!». E così il ragazzino di Rodi, diventato adulto, resta solo a combattere per la vita.

Salvo grazie alle patate. Racconti e dettagli agghiaccianti. Una volta Sami ha un cedimento, ha la tentazione di farla finita, è pronto a lanciarsi contro il filo spinato, davanti al quale ogni giorno veniva obbligato a raccogliere i cadaveri delle persone che, una notte dopo l’altra, decidevano di morire. Lo trattiene l’accorata imposizione di suo padre: “Devi farcela!”. Ci riesce, almeno fino a quando, affamato, indebolito e ridotto a uno scheletro, non riesce a superare la nuova selezione. Vuol dire camera a gas.

Il suo destino è segnato. Lo chiudono, assieme ad un gruppo di altri sventurati, nell’anticamera della finta doccia dove le conduttore del letale Zyklon B sputano veleno a getto continuo. Ma non succede nulla. Una nuova forma di tortura, sperimentata dai nazisti? Passano le ore in un silenzio irreale, poi si spalanca una porta, ma non è quella della camera a gas. Un ufficiale tedesco dà ordine di uscire all’aperto, perché si è prodotta un’emergenza. Sami racconta l’emergenza con un sorriso amaro: «Sono vivo grazie a un carico di patate».

Chissà quante volte avrà raccontato questo incredibile episodio. «Proprio patate, sissignore! Era infatti arrivato un treno carico di patate, ma non vi erano abbastanza prigionieri per scaricarlo. Era quasi mezzogiorno, e quasi tutti i deportati si trovavano fuori dal campo, al lavoro. Bisognava scaricare le patate in fretta perché un altro treno della morte, carico di ebrei, attendeva il turno per arrivare alla rampa di Birkenau. Io e gli altri candidati al gas ci siamo guardati, stupefatti: non era ancora il momento di morire. Fummo condotti a scaricare le patate, sistemandole a piramide su assi di legno. Alla fine, ci fu un’animata discussione fra due ufficiali nazisti: uno diceva che dovevamo andare al gas subito; l’altro invece – visto che già indossavamo il pigiama a righe e avevamo preso confidenza con le leggi, la disciplina e le punizioni del lager – sostenne che era meglio rimandarci nelle nostre baracche. Per il gas sarebbero stati pronti i passeggeri del treno che stava sopraggiungendo. Prevalse il fanatismo organizzativo del secondo. Per noi, quindi, morte rinviata».

La marcia della morte. Sami ha un carattere forte, ma rivivere quei momenti gli provoca una smorfia dolorosa. «A Birkenau avevo perso la fede, bestemmiavo il dio che non faceva nulla per impedire quell’atrocità. Poi, Dio l’ho ritrovato. Mi ha fatto sentire la sua presenza anche alla fine di quell’atroce sofferenza. Mentre stava arrivando l’Armata rossa sovietica per liberarci, i nazisti ci misero in fila per la fuga notturna, dopo aver fatto saltare i forni e distrutto le prove più evidenti dello sterminio, cercando di cancellare quel che ormai tutto il mondo sapeva. Durante il trasferimento, che i sopravvissuti ricordano come la marcia della morte, chi cadeva, scivolava o zoppicava veniva ammazzato immediatamente con una raffica di mitra. Ero sfinito, mi piegai sulle ginocchia. Ero morto, sì ero morto, sapevo e sentivo che nessuno avrebbe potuto far più nulla. Invece, due miei sconosciuti compagni di sventura mi presero, uno per le braccia l’altro per le gambe, e mi salvarono, alla fine della marcia, lasciandomi svenuto – ma vivo – accanto a una montagna di cadaveri. Non ho mai conosciuto i nomi di chi mi ha salvato. Li ho cercati ma non ho mai ritrovato quei due angeli che erano stati più forti della volontà di sopravvivere, una forza che imponeva a ciascuno di pensare egoisticamente a se stesso, a farcela. E poi Dio si è ricordato di me, dandomi la fortuna di incontrare mia moglie. Vivere con un sopravvissuto non è facile. Occorre pazienza, generosità e amore. Io l’amore vero lo ho trovato. Sono stato fortunato».

È incredibile sentir parlare di fortuna da un uomo che ha visto e patito le sofferenze più indicibili. Doppiamente incredibile perché, anche dopo dopo la liberazione, la vita di Sami Modiano, salvo per caso, non è stata facile. La fuga dal villaggio dove erano dislocati i soldati sovietici che lo avevano salvato. Fuga dettata dal piano di un amico, che temeva di essere inviato sul fronte russo, e dal desiderio di tornare a casa, nonostante i sovietici trattassero i sopravvissuti con molta umanità. Altre settimane di marcia notturna, ma questo – racconta Sami – «per me, come si può immaginare, non era il principale problema». Alla fine, l’arrivo a Roma. Ero italiano a tutti gli effetti, ma non avevo mai visto il mio Paese.

Dall’Africa a Ostia. Modiano aveva perduto tutto. Rodi era lontana. E così è andato a cercare parenti e amici, prima a Ostia, dove vive tuttora, poi in un altro esilio, nel Congo Belga, dove altri si erano trasferiti e avevano intrapreso con successo attività commerciali. Il ragazzino, diventato adulto combattendo con la morte, non ci pensa due volte. Sbarca dall’aereo nel cuore dell’Africa, prende confidenza, si impegna, viene colpito più volte dalla malaria ma si riprende, mette in piedi una piccola impresa. Finalmente è quasi un benestante. Si sposa e si convince che la vita è tornata finalmente a sorridergli. Ma non è così. La brutale conquista del potere da parte di Mobutu e la caccia agli stranieri, depredati di tutto, lo spinge ad abbandonare il suo ultimo esilio. Un medico belga gli dice: «Sami, ti sei salvato ad Auschwitz-Birkenau. Mica vorrai morire qui». E così, assieme alla moglie, torna in Italia e ricomincia daccapo, inventandosi una terza o una quarta vita. Che carattere straordinario!

Adesso Sami si divide tra Ostia e Rodi. D’inverno sta a casa, nella sua casa sul litorale, e va a raccontare nelle scuole, nei licei e nelle università di tutta Italia cosa è stato l’orrore dei campi di sterminio, quanto è stato facile instillare e alimentare il più feroce odio razziale, quanti (in Italia) hanno venduto gli ebrei ai nazisti, e quanto sia velenosa e infame la campagna negazionista. D’estate si trasferisce a Rodi, per tener viva la memoria di quella terribile deportazione e per cementare la minuscola presenza della comunità ebraica sull’isola. Dalla fine della guerra, Rodi è greca. Ma quando chiedo a Sami se si senta più greco o italiano, quest’uomo fiero, salvo per caso, non ha un attimo di indecisione: «Sono italiano, e mi sento italiano».

(Fonte: Sette, settimanale del Corriere della Sera, 25 Gennaio 2012)

Nella foto in alto: Sami Modiano

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  • #1Emanuel Baroz

    Giornata della Memoria. La testimonianza di Sami Modiano, scampato al nazismo “per miracolo”

    A Birkenau, a soli 13 anni, perse tutti gli affetti. Sami Modiano, ebreo di Rodi, all’epoca colonia italiana, si dice sopravvissuto “per miracolo” al nazismo. Da alcuni anni, spende ogni energia per far conoscere ai ragazzi nelle scuole la sua esperienza affrontando per loro la fatica e il dolore di tornare ad Auschwitz. In occasione della Giornata della Memoria che ricorre domani, Paolo Ondarza lo ha intervistato:

    R. – Quando sono stato deportato, avevo appena 13 anni e mezzo. I miei occhi hanno visto cose orrende …

    D. – Voi siete arrivati a Birkenau nell’agosto 1944 e siete stati liberati il 27 gennaio 1945: solo pochi mesi, ma da 2.500 che eravate siete tornati in pochissimi …

    R. – Eravamo 2.500 persone: lo sa quanti sono tornati indietro, dei 2.500, in quei pochi mesi? Sono tornati indietro soltanto 31 uomini e 120 donne. Presi a Rodi il 18 luglio 1944, arrivati nella rampa della morte il 16 agosto 1944: il viaggio è durato quasi un mese, in condizioni igieniche disumane che non si potrà mai e poi mai immaginare! Dunque, già il viaggio era stato una tortura enorme. Neanche un animale viaggia come abbiamo viaggiato noi. Se i russi avessero tardato di poco con la liberazione, di quei 2.500 non ne sarebbe rimasto più nessuno. Poi, arrivati alla rampa della morte c’è stata la selezione da parte di un ufficiale tedesco: ha selezionato chi sarebbe dovuto andare a morire e chi – provvisoriamente – sarebbe dovuto rimanere in vita.

    D. – Lo ha fatto con un semplice sguardo, un gesto di un dito …

    R. – … un semplice sguardo, un gesto di un dito: ignoravamo assolutamente che cosa significassero quei gesti, in quel momento! Seguivamo questi gesti senza capire …

    D. – Immediatamente lei fu separato dalle donne, e quindi da sua sorella …

    R. – Sì, da mia sorella Lucia. E grazie a Dio, sono stato insieme a mio papà, mio papà Giacobbe. In quei primi giorni, io ho avuto la fortuna di avere vicino papà. Per quanto riguarda mia sorella – anche lei era stata scelta tra coloro che avrebbero dovuto lavorare provvisoriamente nei lavori forzati.

    D. – Sami Modiano, il suo destino sarebbe stato quello della morte nella camera a gas, ma intervenne suo padre …

    R. – Sì, grazie ad una spinta di mio papà, inizialmente selezionato tra coloro che dovevano morire, passai dalla parte dei lavoratori. Io avevo cugini, parenti che avevano 15, 16 anni, erano più grandi di me, che sono andati a finire direttamente, il giorno stesso, alle camere a gas e ai forni crematori.

    D. – Lei non ebbe più notizie di sua sorella …

    R. – No. Ho avuto un contatto con lei per qualche giorno, a distanza, da lontano. Ci vedevamo a distanza dal lager A nel quale eravamo noi uomini al lager B, nel quale erano le donne. Ma a distanza, con gesti, ma questo ci confortava.

    D. – Cioè, avevate la speranza che sarebbe finita, prima o poi?

    R. – Avevamo la speranza… Poi, ad un certo momento, quando stai in quell’inferno, ti rendi conto che da Birkenau non c’era nessun’altra via di uscita che la morte. E di fatto, molti si rendevano conto di questo e decidevano di farla finita: si buttavano contro i fili spinati nei quali passava l’alta tensione, e morivano fulminati …

    D. – Suo padre non resse alla notizia della morte di sua sorella …

    R. – … no, non ha retto, poverino. Mia sorella Lucia era la cocca di papà …

    D. – Era più grande di lei?

    R. – Aveva tre anni più di me. Era una ragazza bellissima. Sai, io ho perso mamma quando avevo 11 anni e lei si era presa l’impegno di farmi da mamma e da sorella. Quando l’ho persa, ho perso la persona più cara che avessi al mondo, purtroppo. E subito dopo, mio papà, anche lui si è abbandonato a se stesso, non ha voluto continuare e ha deciso di farla finita. E l’ha fatto in un altro modo: quello di andare a presentarsi in ambulatorio, dicendo che si sentiva male. E purtroppo, noi sapevamo molto bene che quando uno si presentava all’ambulatorio decideva di consegnarsi alle camere a gas o ai forni crematori. Mio padre aveva scelto questa strada, nonostante avesse tentato di consolarmi dicendo: “Non mi uccideranno, vedrai: mi cureranno”. Ma non era vero, e lui lo sapeva: lo sapeva bene, lo sapeva bene!

    D. – Incalzati dall’arrivo dei russi, i nazisti vi condussero nella “marcia della morte”, da Birkenau ad Auschwitz. Lei era allo stremo, condannato a finire i suoi giorni in quell’inferno. Ma avvenne l’inatteso, l’imprevisto …

    R. – Non sarebbe dovuto rimanere in vita nessuno, nessuno a testimoniare ai russi di quello che avevamo visto e di quello che avevamo sopportato. Ma c’è stato il miracolo: mi accasciai a terra perché non ce la facevo più a tenermi in piedi – ero diventato uno scheletro, un morto vivente, ero più dall’altra parte che da questa, quando avvenne il miracolo. Io ce l’ho fatta. Non so spiegarmi come. Due persone, due prigionieri, hanno fatto una cosa che non ha una spiegazione: si sono inchinati. Io non mi aspettavo nessun aiuto – ma non per cattiveria e nemmeno per egoismo. In quei casi ognuno di noi, cercava di salvare la propria pelle; nessuno aveva la possibilità di aiutare il prossimo. Io non mi aspettavo nessun aiuto, eppure l’hanno fatto ugualmente. Mi hanno tirato su, mi hanno trascinato per quegli ultimi metri che mi mancavano per arrivare ad Auschwitz e poi si sono accorti che non avrebbero più potuto continuare a trascinarmi, e mi hanno abbandonato là, in un angolo, dove c’erano altri cadaveri. E là sono rimasto fino a quando sono entrati i russi. Non conoscevo quei due uomini, non li avevo mai visti. Non ho avuto neanche il tempo di ringraziarli, questi due prigionieri che io ho chiamato angeli custodi! I tedeschi credevano che io fossi un cadavere come tutti gli altri, là, per terra, perché avevo perso i sensi: hanno visto che nessuno si muoveva e hanno lasciato Birkenau proseguendo la “marcia della morte”.

    D. – Lei, poi, si rifugiò in una casa dove trovò altri superstiti …

    R. – … sì, mi sono rifugiato in uno dei fabbricati di Auschwitz per non rimanere tutta la notte, con una temperatura di 20-25 gradi sotto zero. Là sono stato preso in cura da una dottoressa russa.

    D. – Quanto tempo – se il tempo può bastare – ci vuole per tornare ad essere un uomo?

    R. – Io ho una piaga che non si chiuderà mai più. Ho i miei silenzi, i miei incubi, le mie depressioni. Continuo ancora a soffrire. Specialmente quando incontro i ragazzi e devo spiegare tutto questo: per me è un dolore enorme, ma lo faccio. Lo faccio perché ho capito che il Padre Eterno mi ha scelto per trasmettere a questi ragazzi, che fanno parte di questa nuova generazione la memoria di ciò che ho vissuto, perché non si ripeta. Perché ultimamente accadono cose che mi distruggono: esistono oggi persone che negano, e lei deve comprendere che questo per un sopravvissuto è un dolore enorme. Ma quello che mi fa rabbia è che se a negare sono persone “ignoranti”, passo oltre; ma quello che mi distrugge è quando a negare la storia sono persone di grandissima cultura: questo, veramente, mi porta indietro. Mi porta indietro … io avevo 14 anni quando sono uscito vivo da quell’inferno, ed avevo detto a me stesso, rimasto solo al mondo: “Spero di aver pagato abbastanza, affinché questo non succeda mia più!”. Mi sono sbagliato! Mi sono sbagliato, e questo mi rammarica. Vorrei chiedere a questi uomini il motivo per cui negano: io non capisco il motivo di questo negazionismo …

    http://www.news.va/it/news/giornata-della-mermoria-la-testimonianza-di-sami-m

    28 Gen 2013, 00:08 Rispondi|Quota
  • #2Emanuel Baroz

    Che cosa significa “mai più!”

    di Ugo Volli

    Cari amici,

    oggi è il giorno che una legge europea ripresa anche dall’Italia dedica al ricordo della Shoah. Un ricordo che riguarda non il piano religioso e quello emotivo del compianto, che sono celebrate a parte: gli ebrei per esempio tengono il lutto per la strage di sei milioni di fratelli in un’altra data,” Yom haShoah”, che cade dopo Pasqua. La ricorrenza di oggi è civile, dunque politica. Dice: mai più! Impegna le generazioni a che non si ripeta il genocidio. Ma per poter prendere questo impegno bisogna comprendere, bisogna capire che cosa è stata la Shoah, individuarne le cause, imparare a vedere i sintomi. Dunque ragionare, non semplicemente piangere. E non pensare che si sia trattato di una specie di terribile caso, della presa del potere di un pazzo criminale che abbia compiuto una gigantesca strage per pura follia, da solo o attorniato da un gruppo relativamente piccolo di pazzi come lui – un po’ come i giornali raccontano di persone disturbate che di colpo prendono un fucile e ammazzano tutti quelli che si trovano attorno. Questo è un pensiero consolante, che allontana la colpa dagli altri, limita il senso dell’evento, produce rimedi minimi di buon senso: basterebbe rendere più difficile l’accesso alle armi o individuare per tempo gli psicopatici.

    Non è andata così. Hitler e la sua banda erano criminali, senza dubbio e anche patologicamente propensi alla violenza. Ma non hanno agito per follia, non si sono mossi d’improvviso, non erano isolati. Hanno attuato un piano lungamente e minuziosamente preparato. Ci sono i verbali della conferenza di Wansee in cui la decisione della “soluzione finale” fu presa: piani dettagliati, freddamente predisposti, eseguiti con cura burocratica. Ci sono i precedenti: Hitler aveva proclamato le sue intenzioni in tutti i modi, anche in un libro (“Mein Kampf”, la mia battaglia) ben prima di andare al potere, e fu eletto anche per questo, non nonostante questo. E le popolazioni interessate, non solo i tedeschi, ma i lettoni, i lituani, gli ungheresi, i croati, tanti altri fra cui molti italiani, espressero un buon numero di “volonterosi carnefici”. I giusti che provarono a salvare le vittime furono molto meno.

    Accade nella storia che dei popoli scompaiano, siano distrutti o si assimilino coi loro vicini. Ci sono stati crimini terribili, compiuti più o meno da tutti: la conquista romana dell’impero, la grande espansione islamica, la colonizzazione dell’Africa hanno comportato lutti e distruzioni immense, repressioni spaventose. I genocidi sono qualcosa di più: il tentativo lucido e consapevole di distruggere completamente un popolo, di eliminarlo dalla faccia della terra. Sono crimini relativamente rari E’ accaduto nel secolo scorso oltre che con gli ebrei, con gli Armeni da parte della Turchia, con i Tutsi in Ruanda.

    La Shoà è stata un genocidio particolare, qualcosa di più perché si è realizzato in seguito a un percorso di persecuzioni millenarie, motivato per lo più sul piano religioso. L’idea che vi fosse qualcosa di salvifico per tutti nell’estinzione del popolo ebraico è stata intrecciata profondamente nel Cristianesimo e nell’Islam. Ripetuta per secoli da tutti i pulpiti, tentata per via di assimilazione (con umiliazioni e reclusioni, spesso per via legale con espulsioni e minacce gravissime scongiurabili solo con la conversione). Insomma il programma dell’eliminazione degli ebrei è stato diffuso continuamente secoli e secoli prima che il concetto di razza diventasse rilevante e che Hitler lo riprendesse. Calunnie infami, processi per accuse insensate, ghetti, roghi, progrom si sono ripetuti nella storia con regolarità terribile. Per fare un esempio, ma un esempio solo fra molte migliaia che si potrebbero citare, vi è una forte continuità fra il programma nazista e le prediche di un grandissimo personaggio religioso della tradizione Europa come Martin Lutero. Trovate in libreria il suo libro “Degli ebrei e delle loro menzogne” (Einaudi); ma se volete un riassunto efficace, vi consiglio un articolo di Giulio Meotti uscito ieri: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=8&sez=120&id=47853 .

    Insomma i precedenti vicini e lontani della Shoà ci sono stati, eccome. E ancora continuano. Non solo a destra, fra i neofascisti e neonazisti e fra i cattolici integralisti. Anche a sinistra, fra coloro che pensano che il problema per la sicurezza del mondo e la pace sia l’esistenza dello stato degli ebrei, cui per colmo di malignità affibbiano la qualifica di nazista, cioè gli ribaltano addosso la colpa del genocidio del loro stesso popolo (assolvendo così se stessi, la loro cultura e i loro avi, è chiaro) e la soluzione di tutti i mali la sua distruzione, o magari solo il suo depotenziamento e isolamento e disarmo finché altri non lo distruggano (che è la versione ipocrita di questa nuova propaganda per la Shoah).

    Perché, se il tema è “mai più”, bisogna considerare che vi sono quelli che non dicono solo che gli ebrei sono cattivi e maligni, che la Shoah non c’è mai stata e altre canagliate del genere. Vi è chi oggi, settant’anni dopo la fine del nazismo, dichiara in maniera assai più esplicita e diretta di quanto Hitler non abbia mai fatto, che gli ebrei vanno ammazzati tutti, fino all’ultimo. Solo così verrà la salvezza. Costoro sono gli islamisti, politici, capi terroristi, chierici, imam. Spesso si ignora questo lato genocida dell’islamismo, che è anch’esso radicato in secoli e secoli di predicazione. Ma c’è e oggi è dominante.

    Se volete onorare la giornata la giornata della memoria vi chiedo di dedicare cinque minuti a guardare questo filmato (http://www.youtube.com/watch?v=dcbqSUMnZ8A), che è una sintesi di infiniti documenti in questo senso. Vi si ripete a chiare lettere che l’obiettivo religioso e non solo politico della guerra araba contro Israele, che dura ormai da quasi un secolo è la distruzione totale non dello stato di Israele (che sarebbe già cosa gravissima), ma degli ebrei in quanto tali, tutti, senza eccezione. Hitler non ha mai detto queste cose con altrettanta chiarezza. Non perché non le pensasse, ma perché temeva la reazione del suo pubblico, aveva paura che il suo messaggio espresso nella forma più chiara e più dura potesse impressionare quel che restava della coscienza morale dei suoi seguaci. Gli islamisti non temono affatto qualcosa del genere. Dicono con chiarezza il loro programma politico/religioso genocida.

    Per questo al giornata della memoria oggi non può che essere una ricorrenza di impegno contro il programma genocida attuale, quello islamista e quindi di difesa di Israele, che è la sola barriera vera rispetto a questo progetto genocida (si è visto con Hitler quanto le buone parole della comunità internazionale contino e quanto ci si possa fidare di esse). Dire oggi “mai più” alla Shoah diventa un motto concreto se si dice “no” alla distruzione o all’indebolimento dell’autodifesa di Israele, se ci si impegna a resistere all’invasione islamista che scuote il mondo.

    http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=47861

    28 Gen 2013, 00:09 Rispondi|Quota
  • #3Emanuel Baroz

    28 Gen 2013, 00:17 Rispondi|Quota
  • #4Emanuel Baroz

    Sami e Selma Modiano: dopo la Shoah un nuovo matrimonio

    http://www.progettodreyfus.com/sami-e-selma-modiano-dopo-la-shoah-un-nuovo-matrimonio/

    28 Gen 2015, 00:03 Rispondi|Quota