L’appoggio al terrorismo islamico come “unica arma dei popoli oppressi” è un errore (anche) storico

 
Emanuel Baroz
16 settembre 2014
4 commenti

Cinque stelle, quattro in condotta, zero in storia

La faciloneria e il semplicismo di chi non conosce il passato e giudica i conflitti restandosene comodamente al riparo.

di Ugo Volli

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Ha fatto rumore, un paio di settimane fa, l’ennesima sparata del grillino di turno, in appoggio al terrorismo: “Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella. È triste ma è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche non violente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana. Non sto né giustificando né approvando, lungi da me. Sto provando a capire. Per la sua natura di soggetto che risponde ad un’azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore“. L‘onorevole Di Battista (questo il nome dell’illuminato personaggio) non si riferiva per una volta al terrorismo contro Israele, ma all’Isis, quella funebre formazione che si è proclamata califfato (che per chi non lo sapesse, è un’istituzione religiosa: “khalifa” significa successore, del profeta, naturalmente) e che pratica il genocidio di cristiani, yazidi e altri “infedeli”. Ciò nonostante le sue dichiarazioni sono utili a capire la ragione per cui tanti “progressisti” politici e religiosi si schierano contro Israele e quindi vanno considerate con attenzione. Nell’anti-israelismo e nell’antisionismo c’è spesso una base tradizionalmente antisemita, questo è chiaro. Israele non è solo lo Stato degli ebrei, è l’ebreo degli Stati e viene trattato come gli ebrei venivano trattati durante l’esilio: ghettizzato, discriminato, boicottato, sospettato di crimini ridicoli e spesso infamanti, come “ammazzare bambini”.

Grazie a un millennio e mezzo e passa di martellante antigiudaismo cristiano, gli ebrei sono il gruppo che viene facile odiare e il loro Stato, che non doveva mai essere costituito secondo la sensibilità cristiana (perché l’esilio dell’ebreo errante faceva parte della punizione del “popolo deicida”) segue la stessa sorte, unico fra gli stati del mondo. Ma oltre a questa radice teologico-politica, nello schieramento istintivo da parte di molta sinistra a favore del terrorismo arabo vi è qualcosa di più generale, che si ripercuote anche contro Israele: l’idea che bisogna schierarsi con loro, anche se usano metodi di lotta atroci e inumani, perché sono i “più deboli”, “gli oppressi”, e dunque i nuovi proletari, la “moltitudine” di cui parlava Toni Negri nel suo best seller internazionale “Impero”. E’ un atteggiamento così diffuso e irriflesso che non si può non farci i conti. Ma bisogna dire che esso è radicalmente sbagliato. E’ sbagliato sul piano etico, naturalmente. Il drone o l’aereo che cerca di uccidere il terrorista può sbagliare naturalmente e coinvolgere persone che non c’entrano. In guerra è sempre successo, purtroppo e questo è un buon motivo per cercare di evitare le guerre, per tentare di risolvere le dispute sul piano pacifico. Ma il colpo mira a un bersaglio preciso, a un combattente nemico. Il terrorista suicida che si fa saltare nella metropolitana o, come è successo spesso in Israele, negli autobus nei caffè nei supermercati nei ristoranti non cerca neanche di distinguere, non si dà obiettivi militari, se la prende con la gente qualunque dall’altra parte della barricata. Lo stesso fanno i razzi di Hamas, le molotov e i sassi sulle macchine, gli accoltellamenti casuali, le stragi di civili di altra religione, magari dopo aver marcato la loro casa con un segno infamante come facevano i nazisti.

C’è in questo modo di combattere l’idea, tipicamente razzista, che tutto l’altro popolo sia non solo nemico, ma degno di morire in massa, salvo che eventualmente si sottometta e si converta. Questo modo di combattere senza distinzione fra civili e militari è tipico dell’Islam, è all’origine del genocidio armeno e assiro, della distruzione dei greci che abitavano e avevano fondato le città della costa asiatica dell’Egeo che oggi si dicono turche, delle conquiste islamiche antiche della Spagna, dell’Africa del nord, della Mesopotamia. Ma in questo modo di vedere le cose vi sono anche degli errori di fatto. Non è vero che gli arabi siano gli “umili”, i “deboli”. Loro non si vedono affatto così. Storicamente hanno sempre pensato a se stessi come i signori e si battono per riconquistare questo ruolo, che considerano oggi provvisoriamente usurpato. Sono stati storicamente i più grandi colonialisti: partiti dalla penisola arabica deserta e spopolata, hanno conquistato e arabizzato mezzo mondo, accumulando ricchezze gigantesche depredate ai popoli che conquistavano e opprimevano, distruggendo la loro cultura e la loro economia. L’Africa del Nord era il granaio dell’Impero Romano, abitata da popolazioni berbere; la conquista araba le ha reso spopolate, incolte … e arabe; la Mesopotamia era abitata dai babilonesi, la Siria dagli assiri, che parlavano l’aramaico, ora virtualmente estinto. L’Africa nera fu depredata dai mercanti di schiavi arabi, che per un certo periodo fornirono gli inglesi di carne umana per le colonie americane, ma molto più a lungo servirono il mercato domestico arabo.

Le regole del Corano sono tipicamente coloniali: gli indigeni conquistati sono inferiori, se non si convertono devono riscattare la loro sopravvivenza con umiliazioni legali e fiscali senza fine. Anche il territorio dell’antica Giudea e dell’attuale Israele è stato sottoposto a queste pratiche di arabizzazione forzata e anche di immigrazione islamica dall’Egitto, dall’Arabia Saudita, perfino dall’Anatolia e dal Caucaso. La “questione palestinese” in buona parte deriva da queste pratiche coloniali. E’ facile mostrare che la “Nakbah” palestinese consiste esattamente in questa condizione di non essere più i padroni coloniali del Medio Oriente. Quanto alla miseria, essa è essenzialmente autoinflitta: non c’è regione al mondo che abbia guadagnato tanto senza sforzo nell’ultimo secolo, quanto i paesi arabi del Medio Oriente col petrolio. Quel che non ha funzionato è il meccanismo di redistribuzione, di diversificazione, di investimento. I ceti dominanti arabi hanno usato questo denaro per godere di un lusso illimitato e non hanno pensato affatto a far vivere un’economia produttiva, a elevare la condizione di vita dei loro ceti popolari. I poveri arabi sono stati sfruttati, sì, ma dai loro capi, non dall’Occidente o da Israele. Con gli ebrei è accaduto l’opposto. Oppressi per secoli in terra di Israele dai loro colonizzatori arabi, trattati come gli ultimi, oppressi spesso sterminati sia nel mondo islamico che in quello cristiano, quando hanno potuto liberarsi hanno cercato di arrivare in Israele. Ci sono riusciti finalmente in massa a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, arrivando per lo più poverissimi, armati solo delle loro braccia, della loro intelligenza e del loro amore per la terra, aiutati in parte da donazioni degli ebrei europei più benestanti a comprare della terra che hanno sviluppato con straordinario successo. La creazione di Israele è un atto di decolonizzazione sia dagli occupanti britannici che dai colonialisti arabi.

Il benessere attuale di Israele è la dimostrazione che un territorio desertico e desolato può essere reso fruttuoso col lavoro e che il fattore umano è almeno altrettanto importante per l’economia della ricchezza delle materie prime. L’odio arabo per Israele è in buona parte invidia, volontà predonesca di prendersi i beni che sono stati accumulati con la fatica di generazioni – invece di rimboccarsi le maniche e costruirli a propria volta. Gli ebrei sono odiati dagli arabi perché erano oppressi erano schiavi e si sono emancipati. I progressisti dovrebbero stare dalla parte di una società di schiavi liberati (come già Israele fu all’uscita dall’Egitto). Ma la miopia ideologica impedisce di vedere le radici storiche dei problemi e ne coglie solo gli aspetti superficiali: i “poveri” palestinesi che rivendicano una terra “loro” (cioè che una volta occupavano come colonialisti, o piuttosto emanazione locale dei colonialisti turchi) e dato che l’esercito israeliano ha il torto di impedire loro di ammazzare liberamente gli ebrei, si danno, poverini, al terrorismo.

(Fonte: Shalom, 15 Settembre 2014)

Nell’immagine in alto il deputato dell’M5S Alessandro Di Battista (foto presa qui)

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  • #1Emanuel Baroz

    A proposito dell’ISIS riteniamo utile riproporre oggi questo articolo di qualche tempo fa:

    L’era del califfo

    Bat Ye’or, la storica che predisse il “Califfato universale” spiega l’errore europeo su islam e cristiani.

    di Matteo Matzuzzi

    ROMA. “E’ una catastrofe, una tragedia colossale sul piano umano, storico e della civilizzazione”. Bat Ye’or, in ebraico “Figlia del Nilo”, fuggita dall’Egitto nel 1955, è autrice di bestseller come “Eurabia” (Lindau, 2006) e “Verso il califfato universale” (2008). Con il Foglio commenta l’esodo dei cristiani da Mosul, città caduta in mano alle milizie del califfo al Baghdadi: “Questi fatti ci dimostrano che ormai viviamo nel tempo del Corano. Un tempo diverso dal nostro. Il tempo del Corano non cambia, rimane sempre arroccato sulla parola del Profeta, sui suoi gesti e comportamenti. Leggendo le dichiarazioni del nuovo Califfato, riconosco gli stessi discorsi fatti nel Settimo secolo durante le guerre contro gli infedeli. E’ la stessa mentalità, la stessa rigidità.

    Nulla è cambiato: ciò che vediamo oggi spiega gli eventi del passato”. A cosa si riferisca, Bat Ye’or lo spiega subito: “Parlo dei massacri per le conquiste, del terrore che faceva fuggire interi popoli, dei saccheggi, della legge della dhimmitudine e di tutti quei processi di islamizzazione che ho esaminato nel mio libro ‘Il declino della cristianità sotto l’Islam’ (Lindau, 2009)”. La nostra interlocutrice è stata la prima a porre il tema della dhimmitudine, condizione teologica, politica e giuridica legata inesorabilmente all’oppressione e alla persecuzione degli infedeli: “Sono stata attaccata in modo feroce per aver forgiato questa espressione, volta a spiegare la relazione fra musulmani e non musulmani. Ho mostrato che non vi era tutta quella tolleranza che andavano sbandierando i poteri politici europei, obbedienti all’Organizzazione della cooperazione islamica (Oci). Sono molti i motivi – aggiunge – che spiegano il senso di sottomissione delle comunità cristiane. C’è naturalmente il senso di paura, di vulnerabilità. C’è il trauma di tredici secoli di massacri e terrore. Ma non si deve dimenticare che queste comunità sono state abbandonate dai paesi europei nel corso del Ventesimo secolo.

    Paesi che non hanno protetto gli armeni, che all’Armenia indipendente hanno preferito la Turchia. E lo stesso vale per i greci massacrati dai turchi. I paesi europei non volevano proteggere i cristiani, volevano usarli. Vedevano in loro uno strumento per modernizzare e occidentalizzare la mentalità musulmana, la società, l’islam”. Si pensi solo a quanto accadde tra il 1950 e il 1980, quando “l’Europa voleva costruire con i cristiani del Levante un ponte verso i paesi musulmani e arabi, e lottava contro i nazionalismi dei cristiani dhimmi. L’Europa andava dicendo che che la buona integrazione dei cristiani nella società musulmana era la prova della correttezza della sua politica di fusione con il mondo arabo. Era nient’altro che il fondamento di Eurabia, dell’immigrazione massiccia. Nonché un argomento permanente della sua lotta contro Israele”.

    Vi era una disposizione precisa, spiega la saggista, data ai cristiani dei paesi musulmani da parte dei poteri europei, delle loro chiese, dei notabili: “Integrarsi nelle società musulmane, essere più arabi degli arabi, odiare Israele e allearsi con i palestinesi. Questa scelta rappresentava la loro unica garanzia di sopravvivenza nei paesi musulmani. Sapevano molto bene che i paesi cristiani non li avrebbero protetti, che sarebbero stati sacrificati sul banco degli interessi dei musulmani”. Eppure, di questo fenomeno, prima dell’esodo da Mosul, non se ne parlava. I motivi sono semplici, a giudizio di Bat Ye’or: “Tutta la politica mediterranea della Comunità europea, fin dal 1973, s’è fondata sulla tolleranza, l’amore per la pace e i princìpi umanitari dell’islam. La storia è stata reinterpretata e scritta per provare questa nuova dottrina. Tutti gli scrittori e gli storici che proponevano un’interpretazione diversa venivano attaccati. Nei miei libri mostravo che la scelta dell’Ue di unire la cultura alla politica sulla scia della suggestione di Javier Solana rappresentava un ritorno al fascismo”.

    L’Europa, nota, “ha rigettato il cristianesimo per avvicinarsi sempre di più all’islam, e in questo rigetto rientrano anche l’odio verso Israele e l’alleanza con i suoi nemici”. Le ragioni, però, sono anche altre, a cominciare dalla “distruzione dello stato nazionale, con le sue radici culturali, storiche e religiose; con le sue istituzioni democratiche”. E poi, il silenzio fa comodo: “Perché parlare dei cristiani? Loro rappresentano la prova del fallimento della politica europea. Cosa che si deve celare. Dove sono gli eserciti dell’Europa che aiutino i cristiani e proteggano gli europei dal terrorismo? I nostri governanti ci hanno trasformato in mercenari del jihad”. Sopra ogni altra cosa, però, osserva la nostra interlocutrice, “difendere i cristiani vittime del jihad significherebbe riconoscere che la lotta di Israele è giusta. Israele, popolo che l’Europa odia. Preferisce che muoiano i cristiani e l’Europa stessa piuttosto che vi sia un riavvicinamento a Israele. E più l’Europa respinge Israele, più non sarà in grado di combattare per la sopravvivenza, dal momento che Israele è la sua stessa anima e forza”.

    (Fonte: Il Foglio, 31 luglio 2014)

    18 Set 2014, 14:12 Rispondi|Quota
    • #2Frank

      Molto interessante il racconto storico e attuale. Sono sempre stato e ne sono convinto che l’odio dei arabi-mussulmani la gran maggioranza é l’INVIDIA , di vedere un grande popolo come Israele. Comunque se i politici e i generali IDF non si impegnano con risolutezza contro Hamas e in generale ai nemici della porta accanto, succede che tutto quanto hanno fatto i pionieri ebrei e i condottieri dell’esercito israeliano possa finire anche male per l’intera nazione. Il pericolo teroristico che bolle perimetralmente allo Stato d’Israele deve essere preso con grande serietà e con tempestività senza aspettare i consigli dell’occidente e degl’USA.@Emanuel Baroz:

      18 Set 2014, 16:49 Rispondi|Quota
  • #3Daniel

    Il mito dell’age d’or? L’idillio tra arabi ed ebrei del passato? Tutto falso. Una lecture fuori dal coro ci spiega perché, documenti storici alla mano

    Alle radici dell’antigiudaismo arabo: sfatiamo il mito della tolleranza araba

    di Fiona Diwan

    Milano, 17 Settembre 2014 – Perché è così difficile scrivere la storia degli ebrei dei paesi arabi? Perché è intrisa di mito, si nutre di leggende che vanno sfatate. «Se i rapporti tra arabi ed ebrei erano così idilliaci perché sono bastati pochi decenni, tra il 1945 e il 1970, per svuotare i Paesi arabi e il Nord Africa della sua INTERA popolazione ebraica, comunità millenarie che risiedevano lì ben prima degli stessi arabi, come ad esempio in Iraq dove gli ebrei vi abitavano da duemila anni? Un esodo silenzioso e implacabile, avvenuto senza che nemmeno ci fosse stato bisogno di una espulsione vera e propria, ad eccezione dell’Egitto. Un mondo intero è svanito in pochi decenni, è bastata una sola generazione e la civiltà giudeo araba è andata in frantumi senza che nessuno dicesse una parola».

    Con queste parole esordisce il grande storico francese Georges Bensoussan, ospite del Festival Jewish and the city, con una folgorante lezione di storia contemporanea tenuta all’Università Statale di Milano, una lettura inedita e originale di una pagina di storia abitualmente marginalizzata dai manuali. Un contributo, quello di Bensoussan, in grado non solo di ribaltare molti luoghi comuni ma di modificare l’atteggiamento storiografico sul tema (argomento al centro del nuovo saggio di Bensoussan e non ancora tradotto in italiano, Juifs aux Pays Arabes).

    In una sala gremita, introdotto da Guido Vitale, direttore di Pagine Ebraiche, e seguito da un interessante intervento del filosofo Mino Chamla, lo storico Bensoussan smonta mattone dopo mattone, documenti d’archivio alla mano, l’intero edificio farlocco su cui avrebbe poggiato finora il mito dell’age d’or, dell’idillio dei rapporti tra ebrei e arabi e della presunta tolleranza del mondo arabo. «Abitualmente si crede che i rapporti tra ebrei e mondo arabo si siano guastati con la nascita dello stato d’Israele, ovvero a partire dal 1948. Non è così, anzi è una vera bufala che nessuno finora ha avuto il coraggio di smontare. L’antigiudaismo arabo è una realtà storica molto più antica che con Israele non c’entra niente. Chiunque si sia chinato sugli archivi ha potuto capire e toccare con mano la virulenza del sentimento antiebraico nelle popolazioni del Maghreb e del Medioriente. In pieno Ottocento, quando ancora non esistevano né Israele né il Sionismo, si registrano numerosi efferati omicidi in tutto il Nord Africa contro ebrei comuni, generati da odio e invidia sociale. Su quali fonti mi sono documentato? Non quelle ebraiche ma piuttosto sui report dei governanti locali e poi delle amministrazioni coloniali inglesi, francesi, italiane. L’evidenza è che l’antigiudaismo arabo poggi da sempre sulla denigrazione e abbia la sua pietra angolare nella figura dell’ebreo come elemento tra i più disprezzabili nella scala sociale, un paria, una sottospecie. In arabo marocchino si usa una odiosa espressione, Yahud chashak, che significa che il solo fatto di pronunciare la parola ebreo, yahud, ti sporca la bocca ed è quindi rivoltante perfino il fatto di nominarlo. Io vengo dal Marocco sento ancora nelle orecchie risuonare questa offesa. Ma se Israele e il Sionismo non c’entrano nulla, da cosa nasce allora l’antigiudaismo arabo? Risposta: dal processo di modernizzazione e occidentalizzazione delle società ebraiche mediorientali (senza voler dimenticare l’umiliante status di dhimmi che accomunava tutti gli infedeli, i non musulmani, per secoli). La spiegazione è semplice: quando una minoranza disprezzata e umiliata si emancipa diventando più colta e ricca, tutto questo viene percepito come intollerabile, oltraggioso, che dà fastidio, finendo per generare una gelosia sociale distruttiva e omicida», spiega Bensoussan e colpisce la similitudine con la realtà della Germania alla fine del XIX secolo e fino agli anni ’40, un parallelismo che mette i brividi.

    «Gli arabi videro nell’emancipazione degli ebrei la negazione di sé, un qualcosa che avrebbe impedito loro di continuare ad essere se stessi. In Francia, e in quanto storico, lavorare oggi su un tema così scottante è molto difficile e impopolare», dice Bensoussan.

    Il punto di partenza resta il mito dell’age d’or, l’età dell’oro, il mito della tolleranza benevola arabo-musulmana verso gli ebrei. Come nasce? Chi lo inventò? Sorpresa: questo mito fu costruito a tavolino, nell’Ottocento, da intellettuali ashkenaziti ansiosi di puntare il dito contro i governi assassini dell’est Europa, contro chi scatenava i pogrom, denunciando così le proprie misere condizioni di vita. Come dire: “guardate come stanno bene gli ebrei nei paesi arabi, e guardate invece come è terribile la nostra condizione, qui nell’est Europa!”. Peccato che di questo mito si sia poi impossessata l’opinione pubblica occidentale e la gauche europea del XX secolo.

    «Va anche detto, con dispiacere, che la storia degli ebrei orientali è poco e mal conosciuta, in genere considerati dagli studiosi come i parenti poveri della storia ebraica: poche misere pagine, un capitolo striminzito in ogni tomo ponderoso di storia ebraica contemporanea. Senza contare la fatica di molti intellettuali ad abbandonare una visione folkloristica, da thè alla menta e gellaba tradizionale, degli ebrei orientali.

    Insomma, quella che va scardinata è la mitologia di un mondo arabo tollerante e accogliente, una radioso eldorado se paragonato a un Europa cristiana tetra e antisemita. È stata soprattutto la sinistra occidentale a far suo il mito e oggi è davvero difficile scardinare queste false credenze. Il grande George Orwell aveva sempre messo in guardia dalla difficoltà di abbandonare false illusioni e preconcetti. E anche le parole di Marcel Proust ci aiutano a meglio capire: “I fatti non penetrano mai nel Paese dove abitano le nostre credenze più profonde”, scrive. Come dire che l’evidenza dei fatti non riesce mai a spuntarla contro le idees recues, i pregiudizi e le convinzioni; il disprezzo della verità storica vince sempre in presenza di idee precostituite. Dispiace dirlo, ma il rifiuto di vedere è una ricorrente e frequente passione occidentale.

    In Francia, specie la sinistra, – la gauche e il gauchismo -, continua a coltivare una visione “incantata” delle relazioni tra arabi-ebrei, un passato mitico e profumato che non è mai esistito. L’idillio giudeo-arabo appare ormai sempre di più un’invenzione pura e semplice, mai esistito, almeno alla luce delle ultime fonti storiche. Così come è falsa l’idea che il sionismo sia una risposta all’antisemitismo: non è stato affatto così poiché si trattò di un movimento di autodeterminazione nazionale scaturito dalla volontà di creare un ebraismo laico, tanto è vero che tutti i padri fondatori non erano religiosi. Un’altra bufala da smascherare è quella per cui la Moschea di Parigi accolse e protesse volontariamente gli ebrei durante la seconda Guerra Mondiale. La cosa è infondata, non esistono uno straccio di documento, prova o testimonianza storica che lo attesti, è un altro mito costruito a posteriori».

    Ma c’è un altro elemento che aiuta a capire. Va detto che lo stesso mondo ebraico ha sempre voluto edulcorare il passato in terra araba. Esiste una memoria polifonica degli ebrei arabi, una memoria molteplice, a seconda dell’appartenenza sociale e della loro vicinanza al potere coloniale. Non dimentichiamo che stiamo parlando di una società ebraica attraversata da conflitti e disuguaglianze sociali tale quale ciò che avveniva in altri ambiti. Ovvio, quindi, che la memoria dei ricchi borghesi ebrei dei quartieri alti di Casablanca sia del tutto diversa da quella dei diseredati che vivevano nella mellah o nella hara cittadina.

    «Il punto di svolta si colloca intorno al 1940: è a partire da questa data che prende il via una politica di umiliazione sistematica, una vera e propria epurazione etnica degli ebrei nel mondo arabo. Negli archivi ricorrono ossessivamente due parole: paura e umiliazione», spiega ancora Bensoussan. «Ma il vero problema oggi sapete qual è nella Francia del 2014? Che a raccontare tutto ciò si viene subito accusati di razzismo anti-arabo cosa che vi rende immediatamente non più credibili né autorevoli, intellettualmente impresentabili. L’accusa peggiore è quella di essenzialismo: ovvero il fatto riportare gli arabi a una presunta essenza, categoria razzista e inaccettabile, poiché non ha senso parlare di essenza di un popolo».

    Occidentalizzazione e modernizzazione finiscono così per scatenare una invidia sociale, una gelosia che diventa risentimento. L’emancipazione degli ebrei era vista dagli arabi come inaccettabile, l’uscita dalla condizione di inferiorità impensabile. Lo stesso discorso valeva e vale ancora per le donne, che nell’economia psichica del mondo arabo vengono sempre accostate agli ebrei e ne condividono il medesimo destino. Ancora oggi rivolgo la mia gratitudine a Albert Memmi, autore misconosciuto per troppo tempo, il primo che raccontò la civiltà giudeo-araba senza paraocchi, con i suoi racconti sugli ebrei di Tunisi. Credo che oggi quello arabo-israeliano sia un conflitto soprattutto antropologico e culturale, che sì ha anche un cotè politico ma che, strutturalmente, va molto al di là del problema palestinese».

    Bensoussan continua soffermandosi sul milieu intellettuale francese. Il loro mestiere sarebbe quello di vedere, dice, di mantenersi lucidi. E invece un sottile veleno inquina il loro spirito, specie nella sinistra che per decenni chiuse gli occhi sui crimini di Pol Pot, di Mao, di Stalin, dei compagni che sbagliano. Una cecità colpevole e incomprensibile. Il perché? Per non mettersi in discussione e non cadere nella disperazione davanti al fallimento del loro modello culturale», conclude lo storico.

    Gli fa eco il filosofo Mino Chamla: «Dobbiamo fare buon uso del vissuto. Per questo mi piace riesumare una parola che un pensatore di destra come Giulio Preti scagliò come un insulto contro gli ebrei: l’accusa di essere meteque, meteco, parola che indicava gli stranieri ad Atene, nel periodo della Grecia classica. Aristotele fu il più grande tra i meteci», spiega Chamla. «Ecco, mi piace pensare per gli ebrei del mondo arabo e per me che sono di origine egiziana, a una identità meteca, più ricca e sfaccettata, consapevole che le narrazioni nuove non possono mai essere storie di compiaciuto trionfo o di totale successo: lasciare un paese, perdere tutto, sentirsi esiliato non è mai edificante o bello a dispetto della fortuna che avrai dopo. Una identità, quella meteca, capace di recuperare la dimensione di una “modernità critica”, come fu quella di Edmond Jabès o di Walter Benjiamin».

    http://www.mosaico-cem.it/articoli/attualita/jewish-and-the-city-georges-bensoussan-alle-radici-dellantigiudaismo-arabo-sfatiamo-il-mito-della-tolleranza-araba

    19 Set 2014, 16:14 Rispondi|Quota
  • #4Parvus

    L’appoggio al terrorismo islamico è appoggio a popoli oppressori, a popoli responsabili nel corso della storia della morte di 50-70 milioni di Indù circa 125 milioni di neri, alcune decine di milioni di europei.
    L’appoggio al terrorismo islamico è appoggio a chi vive parassitariamente ai danni del resto dell’umanità con i proventi di un prodotto venduto a circa 40 volte quello ce sarebbe il suo prezzo di mercato. Un prezzo tale da non permettere lo sviluppo del terzo mondo, tale da fare della finanza islamica la più potente del pianeta.

    19 Set 2014, 17:47 Rispondi|Quota
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