La Corte Costituzionale in difesa del presidente antisemita: “Il suo busto non si tocca”

 
Emanuel Baroz
29 marzo 2015
3 commenti

Corte costituzionale: «Il busto del presidente antisemita resta qui»

Respinta la richiesta di rimuovere l’opera che ricorda Gaetano Azzariti. Perché? Non si può sapere. Fu a capo del Tribunale della Razza e lavorò alle leggi fasciste, poi venne riabilitato

di Gian Antonio Stella

azzariti-gaetano-corte-costituzionale-leggi-razziali-focus-on-israelRoma – Il busto non si tocca: si sono proprio arroccati, i giudici della Corte costituzionale, in difesa del «loro» Gaetano Azzariti, il fascistissimo presidente del Tribunale della Razza riciclato da Togliatti e poi premiato nel 1957 (tutti smemorati) con la presidenza della Consulta. No, no e no: nessuna revisione. Nonostante spunti fuori una lettera dell’ex vicepresidente della Corte che due anni fa chiedeva già la rimozione del busto. Un atto d’accusa durissimo. Scriveva Paolo Maria Napolitano il 16 novembre 2012 che l’uscita del libro di Barbara Raggi «Baroni di razza» imponeva che la figura di Azzariti fosse rivista.

L’analisi di De Felice
Per cominciare ricordava il giudizio di Renzo De Felice, il massimo studioso del fascismo, su quel «tribunale» infame voluto dal Duce per concedere a capriccio la patente di quasi ariano o di ebreo che avrebbe poi separato i salvati e i sommersi ad Auschwitz: «Se tutta la legislazione antisemita era immorale e antigiuridica, questa legge lo fu certamente più di ogni altra; essa infatti non si fondava che sull’arbitrio più assoluto…». Più ancora, in quegli «anni tragici e grotteschi», la «Corte» guidata da Azzariti che da oltre un decennio era l’uomo forte del ministero della Giustizia fascista (e le leggi razziali non poteva scriverle certo un maestro elementare come Mussolini) finì per diventare «fonte di immoralità, di corruzione, di favoritismo e di lucro. E ciò mentre il rigore della legge e delle innumerevoli disposizioni ad essa connesse si abbatteva sempre più pesante su quegli ebrei che non volevano o non potevano piegarsi alla sopraffazione e al ricatto» . Insomma, scriveva ai colleghi il giudice Napolitano nella scia di De Felice, a prescindere dal funzionamento del «tribunale» (i cui atti guarda caso sono tutti spariti) Azzariti «presiedette, fino alla caduta del fascismo, una commissione di natura politica, pienamente integrata della logica della persecuzione degli ebrei». E certo il Duce non gliel’avrebbe affidata se lui non fosse appartenuto alla «ristretta cerchia dei più elevati e fidati gerarchi del regime e se non avesse condiviso, almeno nelle linee generali, l’aberrante logica della “difesa della razza”».

leggi-razziali-gaetano-azzariti-corte-costituzionale-focus-on-israelLa lettera di Paolo Maria Napolitano
Ora, chiedeva in quella lettera il giudice della Consulta, se Azzariti avallò l’«orrenda mutilazione dei diritti» di chi non poteva dimostrare di non essere ebreo e se presiedendo quel «tribunale» condivise «la folle e vergognosa logica» della legislazione razziale perché mai il suo busto deve avere l’onore di restare esposto nel corridoio nobile della Corte costituzionale? Non c’è neppure «un motivo di carattere generale» perché «non vi sono i busti di tutti i presidenti». A farla corta, chiedeva Napolitano, togliamolo. Richiesta respinta. Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto… L’uscita mesi fa del saggio di Massimiliano Boni «Gaetano Azzariti: dal Tribunale della razza alla Corte costituzionale», ha però riacceso sotto la cenere la brace della polemica. Tanto più grazie a certe citazioni. Come un discorso del futuro presidente della Corte tenuto molto prima che Palmiro Togliatti, scegliendolo come braccio destro, gli desse una ripulita col detersivo di marca Pci: «La diversità di razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali, dai quali possano derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente». E non era una sbandata giovanile: aveva allora 61 anni .

Il verbale segreto
Così, dopo aver raccontato la storia ai lettori del Corriere , quando abbiamo saputo della lettera di Napolitano per due anni tenuta sotto silenzio, abbiamo chiesto ufficialmente alla Consulta il verbale, in teoria pubblico, della riunione della Corte amministrativa in cui la proposta di togliere il busto fu respinta. Risposta gentilissima del Segretario generale: il verbale c’è, ma occorre «sottoporre all’Ufficio di Presidenza della Corte la questione per l’autorizzazione necessaria». L’altro giorno, finalmente, ecco la risposta definitiva: «La Corte costituzionale corrisponde volentieri alla Sua richiesta di informazioni e Le conferma di essersi in effetti espressa, nella seduta del 12.12.2012, sulla proposta del giudice Paolo Maria Napolitano, decidendo di non rimuovere, allo stato, il busto di Gaetano Azzariti».
Grazie dell’informazione che avevamo già, ma il misterioso verbale? Boh…
Cosa sia successo nella riunione che ha partorito quella striminzita risposta, ovviamente, non si sa. Ma la Corte manda a dire: il busto del giudice fascista e razzista, troppo tardi demolito dagli storici, sta bene dove sta. Perché? Perché sì.

Corriere.it

Nella foto in alto: Gaetano Azzariti, Presidente del Tribunale della Razza durante il Fascismo, il cui busto è presente nei corridoi della Corte Costituzionale di cui è stato presidente nel 1957

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  • #1Emanuel Baroz

    «Via il busto dell’antisemita Azzariti»

    Lettera al Presidente della Repubblica

    Illustrissimo Signor presidente della Repubblica,

    noi sottoscritti abbiamo letto sul Corriere l’ottimo articolo di Gian Antonio Stella sulla sorprendente vicenda legata alla presenza nella sede della Corte Costituzionale del busto di Gaetano Azzariti, presidente negli anni bui del fascismo dell’indegno e cosiddetto Tribunale della Razza, poi incredibilmente eletto Presidente della Corte Costituzionale negli anni ’50. Questo purtroppo non è l’unico, triste e scandaloso caso di «riciclo» di un militante fascista antisemita tra le file degli intellettuali e dei politici dell’Italia repubblicana. È veramente insultante poi, nei confronti della memoria delle innumerevoli vittime del fascismo e dei loro discendenti, apprendere tanto dell’odierno rifiuto di rimuovere dalla sede della Corte Costituzionale il busto di Azzariti, quanto la considerazione del fatto che tale individuo abbia effettivamente potuto ricoprire, complice la «grazia» di Togliatti, prestigiose cariche istituzionali della nostra Repubblica, nel silenzio pressoché generale del mondo politico, culturale, accademico e, specialmente, dell’opinione pubblica. Facciamo appello alla Sua sensibilità di garante delle istituzioni — sensibilità già apprezzata in modo particolare in occasione del ricordo del piccolo Stefano G. Tachè, vittima di un terrorismo nichilista, blasfemo e criminale davanti alla sinagoga di Roma — e chiediamo che Ella ci aiuti, grazie al Suo indiscusso prestigio, a far rimuovere quel busto di marmo da una sede così prestigiosa. Ci rendiamo ben conto che si tratta di un gesto simbolico. Forse in altri luoghi esistono altri «busti» di persone poco rispettabili. Come italiani riteniamo, tuttavia, necessario e doveroso elevare la nostra ferma protesta, esprimere la nostra indignazione e chiedere che questo sopruso e questa vergogna siano cancellati.
    Con deferenza e stima,

    rav. Giuseppe Laras
    Riccardo Calimani

    (Fonte: Corriere della Sera, 31 Marzo 2015)

    31 Mar 2015, 19:06 Rispondi|Quota
  • #2Umberto Riganti

    Assurdo!

    31 Mar 2015, 21:11 Rispondi|Quota
  • #3Emanuel Baroz

    Gaetano Azzariti: errori, ma non infamie

    L’ex presidente della Corte Costituzionale, che fu anche a capo del tribunale della razza, commise di certo delle mancanze. Ma, secondo il nipote, ordinario di Diritto costituzionale alla Sapienza, la sua storia non può essere semplicemente «liquidata»

    di Gaetano Azzariti

    Caro direttore, Gian Antonio Stella sulle colonne del Corriere della Sera è tornato più volte a denunciare la vicenda di Gaetano Azzariti ritenendo «insopportabile» che il presidente del Tribunale della razza possa aver ricoperto alti incarichi anche in epoca repubblicana, fino ad essere eletto Presidente della Corte costituzionale. Credo utile fornire una diversa lettura rispetto a quella proposta perché ciascuno possa, non tanto valutare la vicenda personale di un magistrato ormai morto da oltre cinquant’anni, quanto meglio comprendere la storia che è alle nostre spalle; che a me sembra sia più problematica di quanto non sia stata raffigurata.

    «Un tribunale per “salvare”»
    Anzitutto, sarebbe assai opportuno chiedersi cosa fosse il Tribunale della razza, andando oltre l’orrida denominazione posta dal regime fascista. Si scoprirebbe così che l’istituto «non aveva il compito di condannare, quanto piuttosto di ‘salvare’ dalle conseguenze delle leggi razziali talune persone considerate anagraficamente ebree, ‘arianizzandole’» (Domenico Gallo, Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia, Edizioni gruppo Abele, 2013, p. 91). Possono ovviamente esprimersi le più diverse valutazioni sul questo Tribunale che poteva essere adito da coloro che venivano discriminati a causa dell’appartenenza ad una razza. Non deve, dunque, necessariamente condividersi quanto è stato riconosciuto ad esempio dallo storico deportato comunista Ruggero Zangrandi, che dopo aver pubblicato un interessante studio sul fascismo (il lungo viaggio attraverso il fascismo, 1962) riconobbe che «l’istituto agisse in favore degli ebrei» (vedi all’archivio dell’istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza la documentazione relativa). In ogni caso, non voglio fare di Gaetano Azzariti un salvatore degli ebrei (sebbene potrei richiamare tante testimonianze personali), ma è certo che operò in quella difficile situazione entro un’ambigua linea d’ombra, come tanti a quel tempo, che lavorarono silenziosamente al servizio delle istituzioni; dunque certamente anche del regime.

    Le colpe collettive
    Ma allora – in questa prospettiva – il problema della responsabilità individuale si sovrappone a quello delle responsabilità collettive. Colpe ve ne furono: di tutto il ceto intellettuale liberale, del quale Gaetano Azzariti, allievo di Scajola e di Mortara, faceva parte. I liberali contribuirono all’ascesa del fascismo (ci si ricorda del listone?), non ebbero poi modo o voglia di combatterlo nel ventennio. Ben più rigoroso fu l’atteggiamento e il sacrificio di altre tradizioni di pensiero (socialiste, comuniste, poi azioniste). Molti – soprattutto nella magistratura – furono coloro che continuarono a svolgere il loro mestiere con l’illusione di poter far prevalere il rispetto delle forme giuridiche sulla sostanza del potere autoritario (dovremmo tornare a rileggere gli scritti sulla forma come limite al potere autoritario di un grande antifascista, Pietro Calamandrei, estimatore e amico di Gaetano Azzariti). È strano che la cultura oggi dominante – «liberale» ancora una volta – tenda a non mettersi in gioco, ma semmai a trovare capri espiatori. Ma lasciamo perdere le responsabilità del crocianesimo e torniamo a quelle individuali. Gaetano Azzariti diresse per oltre un quarantennio l’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia. Sarebbe opportuno, nel momento in cui si vuole giudicare la vita di una persona, andare a vedere cosa fu e cosa fece quell’ufficio. Si scoprirebbe che rappresentò non solo un luogo di elaborazione tecnica nella fattura delle leggi, ma anche un luogo di interlocuzione con la cultura giuridica liberale non fascista: cultura posta ai margini, combattuta e disprezzata, ma che ebbe un ruolo tutt’altro che irrilevante – secondo molti decisivo – ad esempio nella elaborazione dei codici.

    L’adesione al «manifesto della razza»
    C’è qualcosa che incrina questo quadro e che potrebbe giustificare una condanna morale e politica. Dopo l’orripilante pubblicazione del manifesto della razza, come dovrebbe essere noto, il regime chiese all’alta burocrazia e a molti intellettuali di aderire. Gaetano Azzariti aderì. Quali che fossero le ragioni non importa e non riferirò neppure quel che una tradizione orale mi ha tramandato. Ma rilevo che ci fu un rapporto tra quella ingiustificabile adesione e la possibilità di assegnare la presidenza del Tribunale della razza ad un tecnico che fece – secondo quanto ho ricordato – di quell’istituto un organo che ha “salvato” alcuni dei sommersi e ha provato ad attenuare – almeno attenuare – le perversioni di un regime razzista. Certo non fu una scelta facile, né un compito svolto in un ambiente trasparente: l’estrema dimostrazione di dove possa portare la collaborazione con un regime. Sarebbe stato necessario dire di no, non c’è dubbio. Ma forse le pressioni non furono solo quelle del regime, ma anche di coloro che guardavano ad un tecnico come una scelta possibile per limitare le aberrazioni del tempo.

    La storia e le scelte
    Chi ritiene Azzariti pienamente integrato alla logica del regime potrebbe anche riflettere su due dati storici. Dopo il 25 luglio del 1943 fu nominato ministro della Giustizia del primo governo Badoglio, segno evidente che non fu certo un giurista di Mussolini. Ci si dovrebbe ricordare, inoltre, la condannato a morte nei suoi confronti comminata dai repubblichini: è da dubitare che fosse nella ristretta cerchia dei più elevati e fidati gerarchi del regime. Ci si stupisce, infine, che Palmiro Togliatti scelse proprio Azzariti come capo di gabinetto subito dopo la caduta del fascismo. Ci si dovrebbe invece chiedere quali furono le ragioni di una tale scelta. Nessuno credo possa ritenere che il capo politico del partito comunista potesse valorizzare un antisemita o un giurista fascista. Entro la prospettiva politica di pacificazione che veniva allora promossa da Togliatti (che può essere ovviamente discussa, ma non è questo ora il punto) non è difficile comprendere che si volesse coinvolgere l’alta burocrazia. Nel caso di Azzariti ritengo che si volle riconoscere anche quel che oggi gli si vuole imputare: un lavoro silenzioso di contenimento nelle forme del giuridico delle politiche del regime. Chi conosce un po’ la storia del pensiero giuridico sa quanto s’è discusso sulle virtualità e i limiti del formalismo giuridico. Si possono condannare gli atteggiamenti dei formalisti, la decisione di Togliatti, la continuità nel passaggio tra regime fascista e Repubblica. Ma questa storia non ha nulla di criminale. Gaetano Azzariti dopo il fascismo non fu solo il secondo presidente della Corte costituzionale, ebbe anche un ruolo decisivo nella costruzione del nuovo Stato e contribuì alla stessa scrittura della Costituzione (fece pare della Commissione Forti), fu anche il redattore della prima sentenza della Corte costituzionale: quella che impose il controllo di costituzionalità sulle leggi anche anteriori l’entrata in vigore della Costituzione (quelle promulgate durante il ventennio, dunque). Una storia che può far riflettere, discutere, dividere, ma che non credo vada semplicemente liquidata come una storia infame.

    Gaetano Azzariti

    Cosa fosse il tribunale della razza lo spiegò, con parole tremende, Renzo De Felice: una «fonte di immoralità, di corruzione, di favoritismo e di lucro». Quanto alla condanna a morte da parte della Repubblica di Salò che dimostrerebbe la verginità di Azzariti («difficile pensare che fosse il giurista di Mussolini», scrive il nipote) la motivazione appare piuttosto semplice: i repubblichini consideravano quello che era stato il massimo dirigente della Giustizia sotto il Duce un voltagabbana traditore. Lo scrive furente, in un articolo sul Corriere del 26 ottobre 1943, l’ex sottosegretario alla Giustizia Giuseppe Morelli ricordando che sotto la direzione del nostro erano state fatte «tutte le leggi fasciste» e che caduto il Duce aveva subito «rivoltato la giubba, da fascista ad antifascista».(g.a.s.)

    http://www.corriere.it/cronache/15_aprile_06/gaetano-azzariti-errori-ma-non-infamie-5b95ed9a-dc7d-11e4-83c6-bcc83638beb8.shtml

    7 Apr 2015, 12:49 Rispondi|Quota