Dall’antichità al jihad, l’antisemitismo è un male che non ci abbandona

 
Emanuel Baroz
30 gennaio 2017
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Dall’antichità al jihad, l’antisemitismo è un male che non ci abbandona

Non comprende la Shoah chi nega l’antisionismo dell’islam politico

di Rav Giuseppe Laras

Che senso ha ricordare? Il ricordo della Shoah non deve essere la riesumazione liturgica o museale di un fossile, né, tantomeno, il momento annuale per un’endovena estetica e melensa di passioni tristi. Infine, cosa purtroppo spesso asserita quasi come se fosse dogma ma mai abbastanza spiegata e portata a comprensione, la Shoah è un unicum rispetto ad altre tragedie umane, pur immani, per la compresenza radicale di una serie di variabili che si verificarono solo in quella tremenda occorrenza storica.

Come è noto, l’unico altro genocidio in cui quasi tutte le variabili furono presenti fu quello armeno, perpetrato dai turchi e dai tedeschi loro sodali. Per intenderci con un esempio, per i bambini cristiani armeni – che pure furono in gran numero sterminati – vi furono alcuni spiragli (comunque sciagurati) di salvezza: la schiavitù, la “turchizzazione” e l’islamizzazione. Per i bambini ebrei, la colpa era quella di essere nati, e dunque furono subito soppressi.

La Shoah non si presta quindi a un’ermeneutica generalizzante, ma richiede di sostare e analizzare i fattori particolari e la sua specifica storia ed essenza. Se tutto è fascismo e nazismo, nulla è fascismo o nazismo. E’ per questo che le generalizzazioni in proposito falsano il pensiero e richiedono sorvegliata serietà. Ed è sempre per questo motivo che molto bisogna guardarsi da coloro che scagliano facilmente, nell’agone polemico, il marchio di nazista o fascista come arma per colpire, delegittimare e ferire avversari ostici, ancorché legittimi.

L’attualità della lezione della Shoah si dipana su due piani ben precisi: quello dell’antisemitismo, specifico e imprescindibile per tutti, e quello, interrelato e generale, del declino e della crisi della vita democratica. L’antisemitismo, dall’antichità al jihad glocale (lemma orrendo), è un male che non ci abbandonerà e che si sta oggi rinvigorendo. Tuttavia, esso può essere, di generazione in generazione, contenuto, decostruito e sconfessato, ed è questo l’impegno richiesto. Non si è compresa la Shoah e l’antisemitismo, se si nega ostinatamente che la sua forma moderna sia l’antisionismo e che l’islam politico ne sia radicalmente intriso, in un coacervo di elementi concettuali nazisti. I paesi europei che negano questo nella vita istituzionale, politica e culturale si stanno ri-aprendo a tale immondo contagio.

Buona parte del dibattito filosofico e politico che ha portato in Occidente -e solo in Occidente- al riconoscimento e alla tutela dei diritti individuali, civili e politici -di cui è cardine il godimento della libertà privata personale (bene non negoziabile e da difendersi costi quel che costi!) dei moderni a fronte di quella collettiva e pubblica degli antichi (o della Umma)- fu una discussione attorno alla “questione ebraica”, all’antisemitismo e, poi, al post-Shoah. Il decadimento della vita democratica a demagogia portò al totalitarismo linguistico (sia sotto i fascismi sia sotto i comunismi) e a virulento antisemitismo. Viene da chiedersi se le nostre massificate democrazie occidentali, scientemente sottoposte a un inquietante e non disciplinato cambio demografico a lungo termine, nell’era globale dei social network, non possano essere altro che demagogiche. Se sì, quali scenari? Quali pericoli? Quali ripari e vaccini, sia giuridici sia filosofici?

Il totalitarismo linguistico è purtroppo già in atto, e non da parte dei rigurgiti di certe grette e retrive parti politiche (che sono un effetto destinato a crescere in futuro), bensì -e qui sta il dramma epocale- da parte delle forze democratiche, riformiste, integranti e mediane – inclusa, purtroppo, da alcuni anni, certa cultura cattolica, asservitasi al mainstream e divenuta irenista e pop. Questo totalitarismo linguistico, che rende incomprensibile il reale, qualunquista lo spirito, indifesa la nostra società e legittimabili (per taluni) le già citate forze retrive, si estrinseca appieno nella dilagante dittatura post-moderna del politically-correct, omologante dispoticamente ma debolmente, non meno pericolosa però di altri disagi e confusioni dell’intelletto. Il cosmopolitismo pacifista, negante l’identità e la storia particolare e specifica, rischia cioè di essere lesivo, distruttivo e luttuoso (e antisemita) tanto quanto l’identitarismo radicale.

E, non è un caso, che l’antisemitismo -travestito da antisionismo-, alberghi oggi proprio in siffatte derive morali e intellettuali, spesso ammiccanti, per amor di terzomondismo e per sistematica ideologica erosione della cultura occidentale, all’Islam politico, antisemita nel suo Dna.

Il Foglio.it

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