Israele è l’unica certezza per la libertà di tutti a Gerusalemme

 
Emanuel Baroz
9 dicembre 2017
2 commenti

Quest’anno a Gerusalemme

E’ stata divisa solo per diciannove anni. Ecco che cosa accadde dal 1948 al ’67. Per la prima volta in un millennio di storia non rimase un solo ebreo nella Città vecchia. Fu un Isis ante litteram.

di Giulio Meotti

gerusalemme-capitale-israele-focus-on-israelNel gennaio 1964, quando Papa Paolo VI vi arrivò per la prima, storica visita di un pontefice nella moderna Gerusalemme, la città era divisa dal filo spinato. Si chiamava “kav ironi”, la linea arbitraria di divisione della città. I cecchini giordani erano piazzati sui tetti, mentre i campi minati erano ovunque nella “no man’s land”, in ebraico “shetah hahefker”, lunga sette chilometri. L’unico passaggio fra le due parti della città, quella israeliana e quella giordana, era attraverso la celebre Porta di Mandelbaum, dal nome dei coniugi Esther e Simcha Mandelbaum, proprietari della casa dove passava il confine.

C’erano quartieri, come Abu Tor, con case che avevano un ingresso nella sezione giordana e uno in quella israeliana. I muri dividevano la città anche dentro le abitazioni. Ma mentre Paolo VI e il suo entourage furono in grado di attraversare liberamente Gerusalemme per pregare nei luoghi religiosi cristiani, israeliani ed ebrei potevano solo guardare dall’altra parte del filo spinato le mura della Città vecchia e, là sotto, sognare il Muro del pianto, il luogo più sacro al mondo per l’ebraismo. Allora, quando la Città vecchia era Judenrein, nessun Papa o Palazzo di vetro ha mai chiesto “l’internazionalizzazione di Gerusalemme”.

Quando altri tre pontefici (Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco) sono tornati a far visita a Gerusalemme, hanno trovato una città aperta a tutte le tre religioni, senza barriere, né fili spinati, né cecchini, né campi minati o discriminazioni su base religiosa. Una città dove chiunque può venire a pregare e omaggiare il proprio Dio. E’ facile imbattersi oggi in musulmani salafiti arrivati dall’Arabia Saudita per visitare la Spianata delle moschee. Ora che gli Stati Uniti si sono decisi a riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele, da più parti si riscopre un’ansia di ridividere quella città.

La città santa è stata conquistata da Gebusiti, Ebrei, Babilonesi, Assiri, Persiani, Romani, Bizantini, Arabi, Crociati, Mamelucchi, Ottomani, Inglesi, Giordani… Ma in migliaia di anni, Gerusalemme è stata divisa soltanto per diciannove anni, dal 1948 al 1967. E fu davvero un incubo.

Fu un regime asimmetrico di divisione: mentre per Israele Gerusalemme ovest divenne la capitale, Gerusalemme est fu sempre una città di confine, un fortilizio. Gerusalemme occidentale era moderna, fiorente di attività politica e culturale, ricca e in costante crescita, mentre Gerusalemme est era un villaggio sonnolento, sottosviluppato e trascurato.

Un anno fa, tre lettere spedite nel febbraio 1948 dalla Città Vecchia di Gerusalemme, in quel periodo assediata dalle forze arabe, furono rivelate dalla casa d’asta Kedem Auction House. Sono scritte dai residenti del quartiere ebraico durante l’assedio di Gerusalemme da parte delle forze arabe nella prima fase della guerra di indipendenza israeliana. Le lettere vennero scritte tre mesi prima che le forze inglesi lasciassero la città, allo scadere del Mandato britannico, e la Città Vecchia venisse conquistata dalle truppe giordane. Una delle lettere è una richiesta di aiuto firmata da Yitzchak Avigdor Orenstein, primo rabbino del Muro occidentale (“del pianto”), destinato a rimanere ucciso tre mesi dopo quando la Città vecchia verrà bombardata. “Abbiate pietà di uomini, donne e bambini e prendete misure drastiche, ove necessario, affinché noi non moriamo“, si legge nella lettera del rabbino Orenstein. “La vita degli abitanti della Città vecchia è in grave pericolo, le truppe britanniche hanno bombardato il quartiere ebraico nelle notti scorse danneggiando la santità della sinagoga“, scriveva Orenstein.

La Gerusalemme ebraica fu il principale bersaglio dell’attacco giordano durante la guerra che accompagnò la fondazione di Israele. Il comandante della Legione, Abdallah el Tal, ricordò che “solo quattro giorni dopo il nostro ingresso a Gerusalemme, il quartiere ebraico era diventato un cimitero. Il ritorno degli ebrei è impossibile“. Il 27 maggio del 1948, 108 dei 150 difensori del Quartiere ebraico della Città vecchia cadevano in difesa della popolazione di 1.700 persone, piegate dalla fame e dalla sete. Se l’assedio fosse continuato, gli arabi avrebbero costretto gli ebrei alla resa o alla fame. Tutta la città rischiava di essere conquistata dagli arabi.

Dopo la fine delle ostilità e con la divisione della città, a tutti gli israeliani – ebrei, musulmani e cristiani – fu impedito l’accesso alla Città vecchia, in flagrante violazione dell’armistizio fra Israele e la Giordania, firmato nel marzo 1949.

Ai turisti stranieri in visita a Gerusalemme fu richiesto di presentare un certificato di battesimo. Anche se i cristiani, a differenza degli ebrei, avevano accesso ai loro luoghi santi, anch’essi furono soggetti a restrizioni secondo la legge giordana. C’erano dei limiti sul numero di pellegrini cristiani ammessi nella Città vecchia e a Betlemme durante Natale e Pasqua. Le organizzazioni di beneficenza e le istituzioni religiose cristiane non potevano acquistare proprietà immobiliari a Gerusalemme o possedere proprietà vicino ai luoghi santi. E le scuole cristiane erano soggette a severi controlli. Dovevano insegnare in arabo, chiudere di venerdì, il giorno santo musulmano, e insegnare a tutti gli studenti il Corano. Allo stesso tempo, non fu permesso di insegnare materiale religioso ai non cristiani.

Nel corso degli anni sotto il dominio giordano, ogni vestigia della presenza ebraica nella città fu sistematicamente cancellata. Durante quei diciannove anni di occupazione illegale e non riconosciuta dal resto del mondo, agli ebrei non venne mai permesso di visitare i loro luoghi santi nella parte occupata della città, in spregio del diritto internazionale e in violazione degli accordi armistiziali. Il plurisecolare cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi venne sistematicamente profanato; le antiche sinagoghe, come la celebre Hurva, e la maggior parte degli edifici dell’antico quartiere ebraico della Città vecchia, vennero scientificamente distrutti dagli occupanti illegali. Centinaia di pergamene della Torah e migliaia di libri sacri furono saccheggiati e ridotti in cenere. Per la prima volta in mille anni non rimase un solo ebreo o una sinagoga nella Città vecchia. Fu una sorta di Isis ante litteram. La popolazione cristiana della città scese da trentamila a prima del 1948 a undicimila nel 1967.

In ogni storia di Gerusalemme questi sono gli anni perduti della città, in cui pare non sia successo nulla. Un periodo morto e in cui i bunker giordani dominavano la città. Come a Mutzav Hapa’amon, una delle 36 postazioni giordane, che dominava tutto, da Gilo all’Herodion. Nel 1955, un gruppo di archeologi prese parte a una conferenza al kibbutz Ramat Rachel. I cecchini giordani fecero strage di archeologi. Quattro i morti.

Dopo la conquista da parte giordana, gli ebrei furono costretti a lasciare le loro case. Sinagoghe, biblioteche e centri di studi religiosi furono distrutti, saccheggiati, utilizzati per alloggiamenti o come stalle per gli animali.

Agli ebrei venne proibito anche di suonare lo shofar, il piccolo corno di montone. Furono fatti appelli alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale per dichiarare la parte antica come una “città aperta” e fermare questa distruzione, ma non ci fu risposta.

Migliaia di pietre tombali provenienti dal cimitero sul Monte degli Ulivi furono utilizzate come pietre da pavimentazione per le strade e come materiale da costruzione nei campi militari giordani. Parti del cimitero furono trasformate in parcheggi, fu allestita una pompa di benzina e fu costruita una strada asfaltata. L’Intercontinental Hotel venne edificato nella parte superiore del cimitero. Il più antico cimitero ebraico del mondo si ritrovò così devastato. Delle 150 mila tombe, alcune risalenti ai tempi biblici di Assalonne e Zaccaria, ne furono distrutte 70 mila.

L’Onu, che oggi si dice allarmato per il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale, non approvò mai alcuna risoluzione contro questa distruzione della zona ebraica. Non appena la Città vecchia cadde nelle mani degli arabi musulmani, la libertà religiosa a Gerusalemme venne cancellata. Gerusalemme antica divenne di fatto, sia pure conservando la presenza cristiana, una città islamica. Gli ebrei furono cacciati e l’ebraismo cancellato.

Mishkenot Sha’ananim, oggi uno dei luoghi più belli e trendy di Gerusalemme, luogo di ritrovo degli scrittori e degli intellettuali, divenne un insieme di baracche dove si viveva in costante paura dei colpi dei giordani. Mamilla, oggi fitta di ristoranti e boutique, era la linea di attacco, la “Sderot del 1948”, dal nome della piccola cittadina israeliana affacciata su Gaza e per anni bersagliata dal lancio dei missili di Hamas. Gli ebrei nella Gerusalemme divisa vivevano in case protette da sacchi di sabbia e strisciavano contro i muri.

A memoria, ci sono le fotografie dei bambini e delle donne che sfollano dagli incendi delle loro case nella Città vecchia, il Muro del pianto che versa in rovina, spoglio, abbandonato, convertito all’islam come al Buraq Wall, e la città più bella del mondo trasformata in un grande Checkpoint Charlie mediorientale. Nei cinquant’anni successivi alla liberazione del 1967, Gerusalemme sarebbe riesplosa a livello urbanistico, religioso, demografico, economico. E’ successo sotto Israele, mai prima.

Israele è l’unico custode di Gerusalemme che si sia dimostrato affidabile e responsabile. Dopo la liberazione, il governo israeliano varò la Legge per la Protezione dei Luoghi Santi, che garantiva libertà di accesso e di culto a tutte le religioni e autonomia ai vari gruppi religiosi nella gestione delle loro rispettive proprietà e dei loro luoghi santi. La Knesset estese la legislazione israeliana a Gerusalemme est, unificando così la città sotto il governo israeliano e mettendo fine alle leggi islamiche discriminatorie. Gli israeliani ripristinarono subito il diritto dei musulmani di pregare sul Monte del Tempio, malgrado il fatto che fosse anche il luogo più sacro all’ebraismo. Oggi il Wakf musulmano (consiglio religioso), a cui è affidata l’amministrazione del Monte del Tempio, impedisce agli ebrei di pregare su questo luogo.

La storia dimostra non soltanto che una grande città divisa non funziona (Nicosia, Berlino, Belfast per citarne alcune). Ma soprattutto che il migliore destino di una città mista come Gerusalemme è quello di essere garantito soltanto dagli ebrei, per due motivi. Il primo è che il pluralismo funziona soltanto in una democrazia e Israele è l’unico paese democratico in una mezzaluna che va dal Nord Africa fino all’Asia minore. La seconda è che il rispetto delle minoranze non esiste nel mondo arabo-islamico.

Adesso si vorrebbero riportare le lancette della storia a quel terribile periodo, i diciannove anni perduti di una Gerusalemme atterrita e buia. E che divisa non deve tornare a esserlo più.

(Fonte: Il Foglio, 9 Dicembre 2017)

Articoli Correlati
Alcune considerazione su Gerusalemme capitale dello Stato di Israele

Alcune considerazione su Gerusalemme capitale dello Stato di Israele

20 motivi per cui ogni ambasciata straniera dovrebbe spostarsi a Gerusalemme di Mordechai Kedar* (traduzione dall’ebraico di Rochel Sylvetsky, versione italiana di Yehudit Weisz) In seguito alla dichiarazione di Trump, […]

Per la Russia Gerusalemme Ovest capitale di Israele? Un riconoscimento che non risolve nulla

Per la Russia Gerusalemme Ovest capitale di Israele? Un riconoscimento che non risolve nulla

Gerusalemme ovest capitale di Israele? No grazie, Russia di Roberto Giovannini Gerusalemme ovest sia capitale di Israele, la parte est vada alla Palestina. Così ha parlato la Grande Madre Russia. […]

Presenza ebraica a Gerusalemme: una ulteriore testimonianza di quanto già sapevamo

Presenza ebraica a Gerusalemme: una ulteriore testimonianza di quanto già sapevamo

Gerusalemme è ebraica da sempre Il 1917 è un anno cruciale nella travagliata storia di Gerusalemme: appena meno di un secolo fa, la capitale eterna del popolo ebraico era liberata […]

Gerusalemme città unica da 4000 anni

Gerusalemme città unica da 4000 anni

Né est né ovest: Gerusalemme è sempre stata una sola Solo per 19 dei suoi 4.000 anni di storia la città è rimasta divisa a causa dell’occupazione giordana illegale e […]

Gerusalemme capitale dello stato di Israele è già una realtà: negare l’evidenza non cambierà la storia

Gerusalemme capitale dello stato di Israele è già una realtà: negare l’evidenza non cambierà la storia

Gerusalemme è già la capitale d’Israele. Basterebbe prenderne atto Washington ignora una propria legge e arriva a coprirsi di ridicolo nell’illusione di placare gli estremisti arabi e musulmani La nuova […]

Lista Commenti
Aggiungi il tuo commento

Fai Login oppure Iscriviti: è gratis e bastano pochi secondi.

Nome*
E-mail**
Sito Web
* richiesto
** richiesta, ma non sarà pubblicata
Commento

  • #1Emanuel Baroz

    Israele, ecco cosa ha detto di preciso Donald Trump su Gerusalemme
    Il video e la traduzione in italiano del discorso del Presidente statunitense, che ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme capitale di Israele
    di La Voce di New York
    06 Dic 2017
    “La pace non è mai al di là della comprensione di coloro che sono disposti a raggiungerla. Quindi oggi chiediamo calma, moderazione e che le voci della tolleranza prevalgano sui dispensatori d’odio”, ha detto Donald Trump in uno dei passaggi meno ripresi del suo discorso. E ha precisato: “Non stiamo prendendo posizione su eventuali problemi relativi al cosiddetto status finale, compresi i confini specifici della sovranità israeliana a Gerusalemme”
    Ecco la traduzione del discorso integrale del Presidente Donald Trump, che nella mattinata di mercoledì 6 dicembre ha preso la storica decisione di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele:

    “Quando ho intrapreso il mandato, ho promesso di guardare alle sfide del mondo con occhi aperti e un pensiero molto rinnovato. Non possiamo risolvere i nostri problemi facendo le stesse scelte fallite e ripetendo le stesse strategie fallite del passato. Tutte le sfide richiedono nuovi approcci.
    Il mio annuncio oggi segna l’inizio di un nuovo approccio al conflitto tra Israele e i palestinesi. Nel 1995, il Congresso adottò il “Jerusalem Embassy Act”, che invitava il governo federale a trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme e riconoscere che quella città – e così importante – fosse la capitale di Israele.
    Questo atto fu approvato dal Congresso con una schiacciante maggioranza bipartisan, e fu riaffermato con voto unanime del Senato solo sei mesi fa. Eppure per oltre 20 anni, ogni precedente presidente americano ha esercitato un’esenzione di questa legge, rifiutando di spostare l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme o di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.
    I presidenti hanno emesso queste deroghe nella convinzione che ritardare il riconoscimento di Gerusalemme avrebbe portato avanti la causa della pace. Alcuni dicono che è stata una mancanza di coraggio, ma hanno fatto i loro ragionamenti prendendo le loro decisione, basati sui fatti come li avevano intesi in quel momento.
    Tuttavia, dopo oltre vent’anni di rinunce, non siamo più vicini a un accordo di pace duraturo tra Israele e i palestinesi. Sarebbe una follia presumere che ripetere la stessa formula ora possa produrre un risultato diverso o migliore.
    Pertanto, ho stabilito che è tempo di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale d’Israele. Mentre i precedenti presidenti hanno fatto di questa importante decisione solo campagna elettorale, senza riuscire a portarla a termine, io oggi la sto portando a termine.
    Ho giudicato questa linea d’azione nel migliore interesse degli Stati Uniti d’America e nel perseguimento della pace tra Israele e i palestinesi. Questo è un passo da lungo tempo necessario per far progredire il processo di pace e per lavorare verso un accordo duraturo.
    Israele è una nazione sovrana con il diritto, come ogni altra nazione sovrana, di determinare la propria capitale. Riconoscere questo come un fatto è una condizione necessaria per raggiungere la pace.
    70 anni fa che gli Stati Uniti sotto il presidente Truman riconobbero lo stato di Israele. Da allora, Israele ha fatto della città di Gerusalemme la sua effettiva capitale, la capitale che il popolo ebraico ha stabilito in tempi antichi.
    Oggi Gerusalemme è la sede del moderno governo israeliano. È la casa del parlamento israeliano, della Knesset, così come la corte suprema israeliana. È la sede della residenza ufficiale del primo ministro e del presidente. È la sede di molti ministeri del governo. Per decenni, durante le loro visite, presidenti, segretari di stato e capi militari americani ha incontrato i loro omologhi israeliani a Gerusalemme, come ho fatto io stesso nel mio viaggio in Israele all’inizio di quest’anno.
    Gerusalemme non è solo il cuore di tre grandi religioni, ma ora è anche il cuore di una delle democrazie di maggior successo al mondo. Negli ultimi sette decenni, il popolo israeliano ha costruito un paese in cui ebrei, musulmani e cristiani – e persone di tutte le fedi – sono liberi di vivere e adorare secondo la loro coscienza e secondo le loro credenze. Gerusalemme è oggi – e deve rimanere – un luogo dove gli ebrei pregano al Muro occidentale, dove i cristiani percorrono le stazioni della Via Crucis, e dove i musulmani adorano la moschea di Al-Aqsa.
    Tuttavia, durante tutti questi anni, i presidenti che rappresentano gli Stati Uniti hanno rifiutato di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele. In realtà, abbiamo rifiutato di riconoscere qualsiasi capitale israeliana. Ma oggi, finalmente riconosciamo l’ovvio: che Gerusalemme è la capitale di Israele. Questo non è niente di più o niente di meno che un riconoscimento della realtà. È anche la cosa giusta da fare. È qualcosa che deve essere fatto.
    Ecco perché, coerentemente con la legge sull’ambasciata di Gerusalemme, sto anche dirigendo il Dipartimento di Stato per iniziare la preparazione per spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Inizierà immediatamente infatti il processo che porterà all’assunzione di architetti, ingegneri e planners in modo che la nuova ambasciata, una volta completata, sarà un magnifico tributo alla pace.
    Nel fare questi annunci, voglio anche chiarire un punto: questa decisione non intende in alcun modo riflettere un allontanamento dal nostro forte impegno per facilitare un accordo di pace duraturo. Vogliamo un accordo che sia molto importante per gli israeliani e molto per i palestinesi.
    Non stiamo prendendo posizione su eventuali problemi relativi al cosiddetto status finale, compresi i confini specifici della sovranità israeliana a Gerusalemme o la risoluzione dei confini contestati. Queste questioni dipendono dalle parti coinvolte. Gli Stati Uniti rimangono profondamente impegnati a contribuire e a facilitare un accordo di pace accettabile per entrambe le parti. Intendo fare tutto ciò che è in mio potere per contribuire a forgiare un simile accordo.
    Senza dubbio, Gerusalemme è uno dei temi più delicati in questi negoziati. Gli Stati Uniti potrebbero sostenere una soluzione a due stati se concordati da entrambe le parti. Invito quindi tutte le parti a mantenere lo status quo nei luoghi sacri di Gerusalemme, incluso il Monte del Tempio, noto anche come Haram al-Sharif. Più di tutto, la nostra più grande speranza è per la pace, l’anelito universale in ogni anima umana. Con la decisione di oggi, ribadisco l’impegno di lunga data della mia amministrazione, per un futuro di pace e sicurezza per la regione. Ci sarà, ovviamente, disaccordo e dissenso riguardo questo annuncio. Ma siamo fiduciosi che alla fine, mentre continuiamo a lavorare su questo genere di disaccordi, arriveremo ad una pace e ad un punto molto più avanzato, nella comprensione e nella cooperazione. Questa sacra città dovrebbe suscitare il meglio dell’umanità, sollevando il nostro sguardo verso ciò che è possibile, senza trascinarci indietro e scendere alle vecchie lotte che sono diventate, ormai, così prevedibili.
    La pace non è mai al di là della comprensione di coloro che sono disposti a raggiungerla. Quindi oggi chiediamo calma, moderazione e che le voci della tolleranza prevalgano sui dispensatori d’odio. I nostri figli dovrebbero ereditare il nostro amore, non i nostri conflitti. Ripeto il messaggio che ho pronunciato in occasione del vertice storico e straordinario in Arabia Saudita all’inizio di quest’anno: il Medio Oriente è una regione ricca di cultura, spirito e storia. Le sue persone sono brillanti, orgogliose e diverse, vibranti e forti. Ma il futuro brillante che attende questa regione è tenuto ben lontano dagli spargimenti di sangue, dall’ignoranza e dal terrore di oggi. Il Vicepresidente Pence si recherà nella regione nei prossimi giorni per riaffermare il nostro impegno a lavorare con i partner in tutto il Medio Oriente per sconfiggere il radicalismo che minaccia le speranze e i sogni delle generazioni future. È giunto il momento per i molti che desiderano la pace, di espellere gli estremisti. È giunto il momento che tutte le nazioni e le persone civili rispondano al disaccordo con un dibattito ragionato, non con la violenza. Ed è tempo per voci giovani e moderate in tutto il Medio Oriente di rivendicare come proprio un futuro che sia luminoso e bello.
    Quindi oggi, riconsegniamo noi stessi a un percorso fatto di comprensione e di rispetto reciproci. Riconsideriamo i vecchi presupposti e apriamo i nostri cuori e le nostre menti al possibile e alle possibilità del futuro. Infine, chiedo ai leader della regione – politici e religiosi, israeliani e palestinesi, ebrei, cristiani e musulmani – di unirsi a noi nella nobile ricerca di una pace duratura.
    Grazie, Dio vi benedica, Dio benedica Israele, Dio benedica i palestinesi e Dio benedica gli Stati Uniti. Grazie mille. Grazie”.
    Donald J. Trump

    ****
    Questo il testo originale:
    “When I came into office, I promised to look at the world’s challenges with open eyes and very fresh thinking. We cannot solve our problems by making the same failed assumptions and repeating the same failed strategies of the past. All challenges demand new approaches.
    My announcement today marks the beginning of a new approach to conflict between Israel and the Palestinians. In 1995, Congress adopted the Jerusalem Embassy Act urging the federal government to relocate the American embassy to Jerusalem and to recognize that that city — and so importantly — is Israel’s capital.
    This act passed Congress by an overwhelming bipartisan majority, and was reaffirmed by unanimous vote of the Senate only six months ago. Yet for over 20 years, every previous American president has exercised the law’s waiver, refusing to move the US embassy to Jerusalem or to recognize Jerusalem as Israel’s capital city.
    Presidents issued these waivers under the belief that delaying the recognition of Jerusalem would advance the cause of peace. Some say they lacked courage, but they made their best judgments based on facts as they understood them at the time.
    Nevertheless, the record is in. After more than two decades of waivers, we are no closer to a lasting peace agreement between Israel and the Palestinians. It would be folly to assume that repeating the exact same formula would now produce a different or better result.
    Therefore, I have determined that it is time to officially recognize Jerusalem as the capital of Israel. While previous presidents have made this a major campaign promise, they failed to deliver. Today, I am delivering.
    I’ve judged this course of action to be in the best interests of the United States of America and the pursuit of peace between Israel and the Palestinians. This is a long overdue step to advance the peace process and to work towards a lasting agreement.
    Israel is a sovereign nation with the right, like every other sovereign nation, to determine its own capital. Acknowledging this as a fact is a necessary condition for achieving peace.
    It was 70 years ago that the United States under President Truman recognized the state of Israel. Ever since then, Israel has made its capital in the city of Jerusalem, the capital the Jewish people established in ancient times.
    Today, Jerusalem is the seat of the modern Israeli government. It is the home of the Israeli parliament, the Knesset, as well as the Israeli supreme court. It is the location of the official residence of the prime minister and the president. It is the headquarters of many government ministries. For decades, visiting American presidents, secretaries of state, and military leaders have met their Israeli counterparts in Jerusalem, as I did on my trip to Israel earlier this year.
    Jerusalem is not just the heart of three great religions, but it is now also the heart of one of the most successful democracies in the world. Over the past seven decades, the Israeli people have built a country where Jews, Muslims, and Christians — and people of all faiths — are free to live and worship according to their conscience and according to their beliefs. Jerusalem is today — and must remain — a place where Jews pray at the Western Wall, where Christians walk the Stations of the Cross, and where Muslims worship at Al-Aqsa Mosque.
    However, through all of these years, presidents representing the United States have declined to officially recognize Jerusalem as Israel’s capital. In fact, we have declined to acknowledge any Israeli capital at all. But today, we finally acknowledge the obvious: that Jerusalem is Israel’s capital. This is nothing more or less than a recognition of reality. It is also the right thing to do. It’s something that has to be done.
    That is why, consistent with the Jerusalem Embassy Act, I am also directing the State Department to begin preparation to move the American embassy from Tel Aviv to Jerusalem. This will immediately begin the process of hiring architects, engineers, and planners so that a new embassy, when completed, will be a magnificent tribute to peace.
    In making these announcements, I also want to make one point very clear: This decision is not intended in any way to reflect a departure from our strong commitment to facilitate a lasting peace agreement. We want an agreement that is a great deal for the Israelis and a great deal for the Palestinians.
    We are not taking a position on any final status issues, including the specific boundaries of the Israeli sovereignty in Jerusalem or the resolution of contested borders. Those questions are up to the parties involved. The United States remains deeply committed to helping facilitate a peace agreement that is acceptable to both sides. I intend to do everything in my power to help forge such an agreement.
    Without question, Jerusalem is one of the most sensitive issues in those talks. The United States would support a two-state solution if agreed to by both sides. In the meantime, I call on all parties to maintain the status quo at Jerusalem’s holy sites, including the Temple Mount, also known as Haram al-Sharif. Above all, our greatest hope is for peace — the universal yearning in every human soul.
    With today’s action, I reaffirm my administration’s longstanding commitment to a future of peace and security for the region. There will, of course, be disagreement and dissent regarding this announcement. But we are confident that ultimately, as we work through these disagreements, we will arrive at a peace and a place far greater in understanding and cooperation.
    This sacred city should call forth the best in humanity — lifting our sights to what is possible, not pulling us back and down to the old fights that have become so totally predictable. Peace is never beyond the grasp of those willing to reach it. So today we call for calm, for moderation, and for the voices of tolerance to prevail over the purveyors of hate. Our children should inherit our love, not our conflicts.
    I repeat the message I delivered at the historic and extraordinary summit in Saudi Arabia earlier this year: The Middle East is a region rich with culture, spirit, and history. Its people are brilliant, proud, and diverse, vibrant and strong.
    But the incredible future awaiting this region is held at bay by bloodshed, ignorance, and terror. Vice President Pence will travel to the region in the coming days to reaffirm our commitment to work with partners throughout the Middle East to defeat radicalism that threatens the hopes and dreams of future generations.
    It is time for the many who desire peace to expel the extremists from their midsts. It is time for all civilized nations, and people, to respond to disagreement with reasoned debate, not violence. And it is time for young and moderate voices all across the Middle East to claim for themselves a bright and beautiful future.
    So today, let us rededicate ourselves to a path of mutual understanding and respect. Let us rethink old assumptions and open our hearts and minds to possible and possibilities. And finally, I ask the leaders of the region — political and religious, Israeli and Palestinian, Jewish and Christian and Muslim — to join us in the noble quest for lasting peace.
    Thank you, God bless you, God bless Israel, God bless the Palestinians, and God bless the United States.
    Thank you very much. Thank you.”
    Donald J. Trump
    https://www.lavocedinewyork.com/news/primo-piano/2017/12/06/israele-ecco-cosa-ha-detto-di-preciso-donald-trump-su-gerusalemme/

    10 Dic 2017, 11:06 Rispondi|Quota
  • #2Giacomo Morpurgo

    Condivido completamente quanto detto da Trump su Gerusalemme; come dice Baroz
    Gerusalemme è già la capitale e negare l’evidenza non cambierà la storia
    Giacomo Morpurgo

    10 Dic 2017, 13:36 Rispondi|Quota
Trackbacks & Pingback
  1. Alcune considerazione su Gerusalemme capitale dello Stato di Israele | Focus On Israel