Gheddafi al Senato: per alcuni evidentemente era meglio Arafat….

 
Emanuel Baroz
12 giugno 2009
8 commenti

Da pochi giorni il dittatore libico finanziatore del terrorismo è a Roma, e abbiamo cercato le parole giuste per esprimere il nostro sdegno per la decisione di accoglierlo e, sopratutto, di farlo con tutti gli onori del caso. Per nostra fortuna abbiamo deciso di fare un salto sul blog di Esperimento, da sempre una delle nostre letture preferite, e anche questa volta non siamo rimasti delusi, mentre altrettanto possiamo dire riguardo le dichiarazioni del “solito” signor D’Alemmah che non ha perso l’occasione di far miglior figura tacendo, preferendo affermare una castroneria abissale come solo a lui riesce. Inoltre ci preme sottolineare la notevole differenza rispetto a quanto avvenuto anni fa quando la visita al Senato della Repubblica italiana non fu vista come una VERGOGNA quale in realtà era.

Lettera aperta al Colonnello Gheddafi

gheddafi-visita-in-italiaCi sono paesi disamati dalla storia. Incapaci di offrire ai loro popoli, contro un misero presente, la consolazione di un glorioso passato. Incapaci perfino di trarre profitto dalle loro disgrazie, di trasformare gli oltraggi subiti in leggende esportabili. Paesi che, privi di un fiume per benedire le loro terre, di un eroe per difenderle, di un poeta per cantarle, sono affetti da anonimato cronico.

Il paese in cui son nato è fra questi.Prima che il suo nome fosse propulso nel cielo dei media, dai capricci congiunti del petrolio e di un tiranno, quest’immenso territorio non è stato, per 2.000 anni, che una fabbrica di dune. Uno zero, un’amnesia, un sacco di sabbia sventrato e disperso su 1.759.000 chilometri quadrati di mancanza d’ispirazione del Creatore, una sala d’aspetto immemorabile dove non ha mai degnato fermarsi il treno di un’epopea, un vuoto, soffocante e torrido che separava, come una punizione, l’Egitto della Tunisia. Oggi ancora, benché l’afflusso di petrodollari gli abbia permesso di passare dall’oscurità all’oscurantismo, questo paese resta, agli occhi del mondo, l’anticamera delle Piramidi, il retrobottega dei gelsomini. Culturalmente parlando: il parente povero dell’Islam.

Il Colonnello lo sa.

Anzi ne è così conscio che dopo aver importato i migliori architetti d’Occidente per tracciare audaci prospettive in questo gigantesco piatto di couscous spazzato dai venti e centinaia di artigiani dall’Oriente per ornarne i volumi ancora freschi di bassorilievi, rosoni, mosaici e vetrate – ha tentato di appropriarsi della storia dei suoi vicini, con proposte di matrimonio di un’insistenza patetica, generalmente rifiutate, o seguite da immediati divorzi.

Arrenditi all’evidenza, Colonnello. Né la tua bella faccia da antagonista, né il pennacchio dei tuoi pozzi, né le scie dei tuoi “mirage” in cieli non tuoi, né il tuo vivaio di terroristi riescono a trattenere a lungo l’attenzione del nostro mondo distratto. Una forza centrifuga maledetta fa svaporare il beneficio dei tuoi misfatti, come l’acqua dei tuoi “ovadi”, impedendo alla tua periferia di trasformarsi in centro. Malgrado i tuoi sforzi, questo paese resta senza viso, come i tuoi sicari, e senza voce, come in passato.

A volte, quando il tuo sorriso gallonato mi sorprende, appeso ad un’edicola, mi congratulo con te, da lontano, per aver saputo una volta ancora risorgere dal sabbioso oblio al quale ti condanna il destino. E, forse per smussare il tuo perforante sguardo, o l’interminabile diga dei tuoi denti, mentre mi compro con 2.000 lire la tua testa da adulto, ti immagino bambino, sì, m’invento nostalgie da fratello maggiore e ti vedo, lupacchiotto di quattordici anni, disteso, la sera nella tua stanzetta, con l’orecchio al transistor, che ascolti esaltato la voce di Nasser, il cui carisma saturato ti arrivava dal Cairo, e ti sento esclamare, fra due incitazioni del Rais alla guerra santa “anch’io, un giorno, come lui!”

Il tuo sogno: aggiungere un nuovo capitolo, a tuo nome, nel Grande Libro dell’Islam. Ma Allah è grande, caro cugino, e nella sua immensa saggezza, deve aver deciso che era meglio riservare al tuo paese, che fu un tempo il mio, il ruolo esaltante di “antiporta”, cioè la pagina bianca che precede il testo, e che tale resta, se una dedica non viene ad abitarla

L’unico inconveniente è che tutte le popolazioni che vi hanno vissuto, nei secoli, hanno subito lo stesso destino di “cancellazione”. Cominciando dalle minoranze etniche o religiose, berbere, cristiane ed ebraiche, che chiamaste “dhimmi”, cioè cittadini “protetti”. Delicato eufemismo per dire ostaggi in attesa di conversione. Essere l’oppresso di un potente offre a volte vantaggi culturali: catene d’oro, tempo per piangere, ecc Essere l’oppresso di un oppresso, nessuno. Ebrei di un paese senza luce, fummo gli ebrei più spenti del Mediterraneo.

Privi di quel prestigio di riflesso di cui godono, di solito, i domestici dei grandi Principi, e di cui godettero, almeno una volta durante il loro esilio, tutte le altre comunità. La nostra storia fu così negata, sepolta, per tanti secoli, che senza il libro dello storico Renzo De Felice, Ebrei in un paese arabo, un libro splendido, voluto con tenacia quasi mistica da un fratello della nostra comunità, di questa non resterebbe più, oggi, traccia, né, domani, ricordo. Infatti, dopo aver assaggiato come tutte le consorelle un menù di umiliazioni di una varietà squisita: massacro alla romana, alla mussulmana, alla spagnola, segregazione alla maltese, all’ottomana, leggi razziali nazi-fasciste, e per finire, pogrom post-bellici, compiuti dai nostri fratelli arabi sotto l’occhio dei nostri tanto attesi liberatori britannici, la mia comunità fu pregata di lasciare il paese l’indomani della Guerra dei sei giorni, meno i suoi morti, trattenuti per portare il loro contributo alla Rivoluzione, mediante ossa e lapidi le quali, debitamente frantumate dai bulldozer, sono servite da base a un’importantissima autostrada costruita d’urgenza per collegare il nulla al nulla, e a due giganteschi alberghi per un turismo tuttora inesistente. Così, io, Ebreo senza più radici né memoria, ho aperto il libro ed ho scoperto

* che la nostra presenza in Libia risaliva a più di 2.170 anni;

* che precedeva quindi non solo l’invasione araba, ma anche quella romana;

* che, bellicosi e fedeli al nostro Dio, contro l’esercito romano ci eravamo sollevati, appena avuta notizia della caduta del tempio di Gerusalemme;

* che quella sommossa ci era valsa decine di migliaia di vittime, ma anche una lapide in latino che riferisce il fatto, e senza la quale non sapremmo che fummo una così antica e coraggiosa comunità

Ma questa è storia, dicevo girando le pagine, storia che fonda la mia legittimità, ma non basta, io voglio di più, io… io non sapevo cosa volessi, ma lo trovai. A pagina 41.

Un censimento della popolazione ebraica di Tripoli.

Il primo della nostra storia. Effettuato da Giuseppe Toledano, capo della comunità, nel 1861, e miracolosamente scampato ai falò del Colonnello.

E cominciarono a sfilare sotto i miei occhi, debitamente numerati:

* I Rabbino capo

* 17 Rabbini

* 11 Studenti, e poi tornitori, droghieri, tavernieri, sterratori, sarti, macellai, scrivani, chiromanti, levatrici, facchini, donne e bambine, malati e mendicanti, in tutto:

4.500 abitanti.

Che il professor De Felice sia ringraziato per questo documento. Avevo finalmente sotto gli occhi la prova, inconfutabile che gente del mio sangue era effettivamente vissuta, lì, fra le dune e il mare, colmando, di generazione in generazione, la mitica voragine che separava nostro padre Abramo da mio nonno, Abramo anche lui. Certo non erano i poeti matematici filosofi e medici che fiorivano i giardini della Spagna mussulmana, e curavano i mal di testa dei califfi illuminati, ma era pur sempre la mia famiglia, o perlomeno il perimetro sociale entro il quale senza dubbio alcuno, si era mossa. Mi misi dunque a trascrivere questa lista a mano, sicuro che uno dei miei sarebbe passato, presto o tardi, sotto la mia penna. E questo modesto rito bastò a far si che il vapore dei ricordi si condensasse dietro ai miei occhiali, che si mettesse a piovere, a distanza, su quella striscia di asfalto dove i miei morti giacevano prigionieri, che questa scoppiasse, che un albero ne uscisse, coronato di foglie, popolato di uccelli.

Il mio albero genealogico, per approssimazione.

Chi potrà più dire l’odore delle pelli e la loro lucentezza, ai tempi in cui il sapone si chiamava olio di mandorle? La magrezza indiana dei bambini, il carbone dei loro sguardi, quel modo così arabo di essere ebrei che avevano gli ebrei di Trablous. Donne prosperose o gracili, vestite di sete rigate, cangianti, la vita cinta in quadroni d’argento, le teste avvolte nei foulards i quali, scivolando cento volte al giorno sulle loro spalle, scoprivano capigliature corvine o rosso hanna, e ondulate come il mare visto dai terrazzi Odore di cammun, di felfel, di atar e gelsomino, fiori e febbri, spezie e sudori, correnti d’aria fritta o di orina nei cortiletti di quel dedalo scalcinato che era la Hara, il nostro ghetto

E i turbini di mosche intorno agli occhi degli asini fatalisti, la polvere di loukhoum sul naso dei bambini buoni, e i capretti appesi nei giorni di mercato, le montagne di cipolle viola, di datteri lucenti, di peperoni dai colori fluorescenti; e i polli che venivano comprati vivi, e portati via tenuti dalle zampe, come mazzi di fiori, per essere uccisi in casa, secondo le regole, in fondo ai giardinetti miseri, – due gerani, un ramoscello di menta, un oleandro, la cui acida linfa, ad ogni fiore colto, vi si attaccava alle dita

Chi potrà più raccontare la severità, la misericordia, dei nostri vecchi barbuti, in turbante, Fez, Bertila o Arrakyia, secondo l’epoca, dottori della legge dalle mani nodose, dalle unghie di corno, dalla pelle scavata dal tempo, ceppi della fede giudaica ancorati, loro malgrado, in questa terra tanto più amata e tanto più esiliante che somigliava troppo alla patria perduta: come una lacrima a una goccia di pioggia

Divina monotonia del cielo azzurro; stesse palme trionfali cariche di munizioni d’oro, stessi tramonti rapidi, che insanguinavano di sole morente i talleth dei nostri padri, riuniti a dieci per la preghiera della sera, sui balconi; stesse notti crivellate di stelle, stelle cosi vicine che il canto dei grilli sembrava la loro voce; notti di rugiada, che facevano gonfiare i cocomeri a scatti, imitando il gracidare dei ranocchi; albe di madreperla che li vedevano già in piedi, i nostri vecchi, con gli occhi di uva passa, a volte di uva verde, volti a Gerusalemme, per rendere grazie al Signore di questo nuovo giorno, che autorizzava loro a sperarne un altro e un altro ancora fino al giorno tanto atteso del ritorno alla Terra promessa; sposando, giudicando, benedicendo e morendo in quell’attesa, – mai completamente però, perché i loro figli, messi al mondo in quantità prodigiose (se non sono io, saranno loro, se sono tanti, uno vivrà, se sopravvive avrà dei figli e dagli occhi di uno di loro, finalmente, vedrò il muro.Paradossalmente, questa razza di individualisti non si considera come alberi di una foresta, ma come foglie di un medesimo albero, e, precisamente, la palma: ogni foglia è figlia e madre del tronco, ed è grazie a quelle che muoiono che l’albero cresce) perché i loro figli, dicevo, messi al mondo in quantità prodigiose, davano loro il cambio, prendevano cioè lo scialle e il Libro e si mettevano a vivere, pregare, procreare e morire a loro volta in attesa della partenza.

Ma di cosa si lamenta? Dirà il Colonnello sotto la sua tenda. Voleva partire, l’abbiamo lasciato partire. Certo, ci hai perfino incoraggiati a farlo, spogliando i pochi pazzi, ancora attaccati alla loro terra, dei loro beni e dei loro diritti. Ma stai tranquillo, non è per nostalgia che ti scrivo. Non faccio parte di quei poveri infelici che per rivivere la loro infanzia tripolina vanno a passare le vacanze a Tunisi. Perché se c’è qualcosa che rifiuto di assumere, è proprio la catastrofica illusione della somiglianza, cioè, quella distanza, infima eppur vertiginosa, che separa la lacrima dalla goccia di pioggia, esattamente come, quando, perduto in un souk, cerchi tua madre, la vedi, urli il suo nome, si gira e non è lei. Io, quando la chiamo, si gira ed è sempre lei: Gerusalemme, e quando voglio, ci vado.

Se ti scrivo, è per dirti che la nostra comunità è viva, che cresce e prospera, che si è rifatta, hamdullah. Perché avendo perso tutto non aveva altra scelta se non avanzare. Noi siamo come le api, Colonnello, se il padrone del campo ci ruba il miele a Settembre, lo rifacciamo in fretta, prima dell’inverno, e se continuiamo a punzecchiarti con le nostre richieste di risarcimenti è meno per interesse che per dignità, per ricordarti il tuo debito ma soprattutto la tua perdita. Siamo produttori di beni, materiali e morali, lo siamo sempre stati e tu lo sai, perché il lavoro non ci fa paura, perché il lavoro per noi non è mai stato punizione, bensì espressione, anzi, benedizione. La prova, dopo un mese nei campi-profughi di Latina e Capua, i nostri hanno abbandonato le baracche e sono partiti in cerca di lavoro, e l’Italia, che dandoci rifugio e cittadinanza ha creduto di farci la carità, si è ben presto accorta di aver fatto un investimento.

Tu invece, come tutti i governanti del nuovo mondo arabo, hai voluto lavar via gli ebrei dal tuo tessuto sociale. Ne hai corroso le fibre: commercio, artigianato, agricoltura, professioni liberali, tutto si è dissolto, è volato via come sabbia nel Ghibli e tutta l’esperienza che comprate all’Occidente non potrà sostituire l’esperienza antica che avevamo noi di voi, noi, la cui vocazione è stata, da sempre, la comunicazione: fra gli esseri, i gruppi, le etnie, le discipline, i principi, gli stati, le civiltà. Vocazione che fu indispensabile alla grandezza dell’islam, dell’impero russo, di quello ottomano, della Germania prenazista, e che avrebbe potuto fare la tua, se tu l’avessi voluto. Pensa, cugino, era nato perfino un trovatore su questo pezzo d’inferno che governi. Con l’amore inspiegabile, quasi perverso degli ebrei per le terre matrigne che li hanno adottati, avrebbe potuto fabbricare ali ai tuoi re, ai tuoi eroi, ai tuoi santi e martiri per mandarli a dire al mondo che il tuo paese esiste. Avrebbe potuto cantarlo, il tuo deserto, con parole che avrebbero fatto cadere in petali questa rosa delle sabbie che hai al posto del cuore.

Ma Allah, che è grande e vede lontano, ha voluto, per tua mano, farci partire, affinché io andassi a cantare i miei canti sotto altri cieli, e che la tua nazione potesse proseguire, come in passato, il suo esaltante compito: essere la pagina vuota del Grande Libro dell’Islam.

Shalom ve Salam

Herbert Avraham Haggiag Pagani

New York, 1987 (a vent’anni dalla cacciata degli ebrei dalla Libia)

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  • #1Ruben DR

    GHEDDAFI A ROMA:STAMPA ARABA, EBREI OFFESI PER INVITO SABATO
    IL CAIRO
    (ANSA) – IL CAIRO, 11 GIU – “Ebrei contro Gheddafi, previsto incontro per il Sabath”, “la comunità ebraica di Roma irritata per l’incontro si tenga nel giorno del riposo”. Così titola un servizio nel sito online della tv di Dubai Al Arabiya, che cita il presidente della comunità, Riccardo Pacifici (“Alla fin fine questo dimostra una mancanza di sensibilità”). La comunità ha chiesto un cambiamento della data, si dice ancora, ricordando che “la comunità ebraica nella ex colonia italiana, che trova le sue origini nei tempi dei romani, era di circa 38.000 persone alla fine della seconda guerra mondiale”. Nel sito si rende noto che Gheddafi porta con sé un ‘entourage’ composto da 220 a 320 persone, secondo una fonte italiana a Tripoli, che commenta: “Costerà molto all’Italia. Ma come tutti sanno la Libia è molto importante per Roma”. Al Arabiya cita anche il quotidiano governativo ‘Al Jamahiriya’, che scrive: “Per 40 anni sarebbe stato più probabile che Gheddafi visitasse Saurno che Roma”. Sul sito della tv asatellitare del Qatar Al Jazira, accanto ad un primo piano della foto dell’ “eroe” Omar Al Mukhtar che Gheddafi aveva sulla divisa, in un articolo si cita l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch (Hrw), secondo la quale la visita “celebra un affare sporco”. Si aggiunge peraltro che l’anno scorso l’Italia ha concordato un compenso di 5 miliardi di dollari in proetti di costruzione, borse di studio e pensioni per i soldati libici che servirono nell’esercito italiano durante la seconda guerra mondiale. “In ritorno per l’investimento dell’Italia, la Libia ha concordato di bloccare migliaia di migranti illegali portati di contrabbando attraverso il Mediterraneo in Italia”.

    12 Giu 2009, 18:44 Rispondi|Quota
  • #2esperimento

    Come ha suggerito un mio conoscente, gli ebrei avrebbero potuto inviare a Gheddafi una cassetta di vini kasher con l’augurio “lechaim”, in risposta alla sua proposta di incontrarli di sabato…

    Grazie veramente molto lusingata e onorata 🙂

    15 Giu 2009, 09:31 Rispondi|Quota
    • #3Emanuel Baroz

      E’ tutto meritato, lo sai….;)

      15 Giu 2009, 12:09 Rispondi|Quota
  • #4Emanuel Baroz

    L’ira degli ebrei romani

    di Marco Innocente Furina

    “Questa visita è un insulto. Il viaggio di Gheddafi in Italia si sta risolvendo in un tour penoso, che per il nostro Paese si è rivelato un fallimento politico e economico. E anche Berlusconi non lo riconosco più”. Riccardo Pacifici è scosso. Il presidente della Comunità ebraica romana cerca di controllare la voce, di parlare con calma, ma ci riesce solo a tratti. Non quando rievoca la fuga precipitosa degli ebrei libici nel ’67 o l’attentato di un commando di terroristi palestinesi nell’82 alla sinagoga di Roma. Nell’agguato rimasero uccisi due bambini e furono ferite 43 persone, fra cui il padre di Pacifici. Uno dei terroristi, dopo varie peripezie, fu consegnato dalla Grecia alla Libia, e da allora non se ne è saputo più niente. Il presidente della Comunità ebraica romana si sente quasi tradito, non si capacita di come “l’Italia, il Governo, questo Governo che è quello che forse nella storia repubblicana vanta le migliori relazioni con Israele, possa aver lasciato libero Gheddafi di visitare tutti i luoghi più sacri della democrazia, insultando la democrazia”. Sull’incontro richiesto dal Colonnello con la Comunità ebraica romana per oggi, sabato, shabbat, giorno sacro, in cui gli ebrei devono evitare ogni impegno, dice: “Non nutro alcuna speranza che si faccia”.

    Presidente, anche lei pensa che quella dell’incontro sia stata solo una provocazione?
    Più che una provocazione è uno schiaffo. Per una richiesta del genere nutro solo disprezzo. Mi sento offeso da uomo, da ebreo, da cittadino italiano. Qui il problema supera la questione religiosa. Questa visita è stata un’umiliazione. Come si può accettare di sentire deridere le istituzioni repubblicane da un uomo che non rispetta la democrazia, i diritti umani, le donne? Guardi cosa è stato capace di dire al Campidoglio: uno sberleffo. Alla nostra storia di italiani democratici, ai padri costituenti, alla Costituzione, di un Paese, certo litigioso, certo diviso, ma democratico.

    Ma se alla fine questo incontro dovesse avvenire, magari un altro giorno, cosa fareste?
    Dia retta a me, l’incontro non si farà. Ma sarei ben felice di essere smentito. Per dirgli in faccia, da uomini liberi, cosa pensiamo. E dopo tutto quello che è avvenuto sarebbe un riscatto. Abbiamo già pronta una lettera con le nostre richieste.

    L’annosa questione dei risarcimenti agli ebrei libici cacciati tra il ’67 e il ’70?
    Sì, anche se occorre una precisazione. La storia degli ebrei libici è in parte diversa da quella degli italiani che vivevano in Libia. Gli ebrei cominciarono a fuggire dal Paese africano prima degli italiani, subito dopo la guerra dei sei giorni. Fuggivano dai pogrom, fuggivano dalla morte sicura. Imbarcandosi sulle navi per l’Italia con nient’altro che paura, nostalgia e una valigia. Questi ebrei libici trovarono in Italia la patria che li ha accolti e integrati.

    Gheddafi dice di non riconoscere i misfatti del governo precedente alla sua Rivoluzione…
    Tesi interessante. All’Italia repubblicana chiede miliardi per i danni del colonialismo dello Stato liberale e del fascismo, mentre lui non riconosce il governo di Re Idris di pochi anni prima. Il principio della continuità dello Stato vale solo per l’Italia. Per lui vale una sola continuità: lo sfruttamento dei pozzi di petrolio…

    Il petrolio, è per questo che il Governo è stato così accondiscendente nei confronti del leader libico?
    Berlusconi non lo riconosciamo più. Non è il Berlusconi che ha sostenuto Israele, che si è impegnato per far annoverare Hamas tra le organizzazioni terroristiche. Un’umiliazione. Che però non può giungere fino ad accettare che Gheddafi salga in cattedra a darci lezioni di democrazia.

    Presidente, però non può negare che in questa visita italiana Gheddafi abbia pronunciato delle parole importanti: sui diritti delle donne e sulla lotta al terrorismo.
    Se sulla lotta al terrorismo Gheddafi fosse sincero ci direbbe dove si nasconde Al Zomar, un palestinese che nell’82 uccise due bambini colpevoli solo di essere ebrei davanti alla sinagoga di Roma. Vuole davvero combattere il terrorismo internazionale? Lo rimandi in Italia, lo attende una condanna. All’ergastolo.

    (Il Riformista, 13 giugno 2009)

    16 Giu 2009, 12:13 Rispondi|Quota
  • #5Emanuel Baroz

    L’ira dei rimpatriati e la mancata visita degli ebrei tripolini

    Nessun esponente dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia (Airl) ha ricevuto un invito per partecipare all’incontro fra il leader libico Muammar Gheddafi e alcuni italiani nati a Tripoli.

    Lo rende noto un comunicato dell’Associazione, che sottolinea di «ritenersi umiliata dall’atteggiamento tenuto ancora una volta dal nostro Governo nei suoi confronti». Nell’ambito della ritrovata amicizia tra Italia e Libia, «è deplorevole – nota l’Airl – che non si sia ritenuto necessario inserire nell’agenda ufficiale un incontro con una rappresentanza dei rimpatriati italiani che hanno subito la confisca dei beni e l’umiliazione della cacciata». Per l’associazione, spiega Ortu, è solo «solo l’ultima delle tante mortificazioni subite». L’Airl chiede comunque «al ministero degli Esteri» di entrare in possesso «de discorso del colonnello il quale, al di là delle manifestazioni di amicizia verso i presenti, avrebbe fatto anche rivelazioni scioccanti sulle modalità della nostra espulsione». A rifiutarsi, invece, di vedere il Colonnello sono stati gli ebrei romani. Gheddafi si è visto consegnare una lettera a firma di Shalom Tesciuba, leader carismatico della comunità ebraica tripolina e vice presidente della comunità ebraica di Roma. Nel testo è stata riportata tutta la storia di come Gheddafi ha allontanato gli ebrei dalla Libia e la richiesta di un tavolo tra ebrei libici e il Colonnello per definire i risarcimenti ai profughi.

    (Il Tempo, 14 giugno 2009)

    16 Giu 2009, 12:13 Rispondi|Quota
  • #6Vito Kahlun

    Questa lettera di Herbert Pagani è stupenda.

    1 Set 2010, 16:31 Rispondi|Quota
    • #7Emanuel Baroz

      concordo caro Vito, ma anche la tua degli ultimi giorni non è male! 😉

      1 Set 2010, 17:20 Rispondi|Quota
  • #8virgilio

    dire che Pagani per me è stata una stupenda scoperta è dire poco e di ciò devo publicamente ringraziarVI di gaddafi che dire…lo stesso dei politici italiani…è fuffa

    1 Set 2010, 23:07 Rispondi|Quota
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