Tripoli, Libia, 1967

 
Emanuel Baroz
6 giugno 2012
9 commenti

Tripoli, Libia, 1967

di Dani Mimun

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Illusi dai bollettini della radio egiziana, secondo i quali Israele stava per essere cancellata dalla carta geografica – poche ore ancora, aveva dichiarato Nasser – gli arabi libici avevano deciso di farla finita coi propri “israeliani”, proprio come gli eserciti giordani, siriani ed egiziani stavano facendo al fronte. Nel loro immaginario, probabilmente, l’avanzata araba, inarrestabile, era accompagnata da eccidi di massa, stupri collettivi e linciaggi della popolazione israeliana. Non era forse questo il messaggio che la propaganda nasseriana aveva trasmesso in tanti anni di trasmissioni radiofoniche? Gli arabi libici, nell’uccidere la propria popolazione ebraica, erano fortemente convinti di partecipare alla guerra dei loro cugini. Ma quale il nesso fra Israele in guerra e gli ebrei libici? Nessuno, se non il comune denominatore ebraico. Gli ebrei libici si erano ristanziati in quel paese circa milletrecento anni prima, provenendo da Alessandria, muovendosi ad ovest sulle piste del commercio e fermandosi per lo più nell’antica Oea romana, abbandonando il movimento migratorio e trasformandosi in popolazione artigiana e commerciante.

Ma gli ebrei, erano in Libia già dai tempi del primo Tempio di Gerusalemme, e la comunità era numerosa ai tempi del secondo Tempio. Poi emigrarono in massa ai tempi di Rabbi Akiva, di ritorno in Israele, per sparire gradualmente alla fine del primo millennio.

In altre parole, gli ebrei ci erano sempre stati, a Tripoli.

Questa piccola popolazione peraltro viveva in “armonia” con gli arabi – in armonia come gli ebrei avevano vissuto ovunque in armonia per duemila anni sotto popolazioni che a malapena li sopportavano. Continuamente vessati, ma non torturati o messi a morte e quindi in definitiva, sulla base del concetto di “vita ebraica” prima del moderno stato di Israele, “abbastanza bene”.

In seguito, con la consapevolezza che in Israele le cose stavano andando esattamente all’opposto di quanto previsto, che cioè era Israele che stava avanzando in tutte le direzioni contro gli eserciti arabi ormai in rotta, l’odio per gli ebrei, se così si può dire, aumentava ancor più.

La comunità ebraica era rinchiusa nelle case, praticamente in stato di assedio, con sporadici massacri, come il caso di due intere famiglie prelevate dalla “polizia”, messe a morte e seppellite nella calce viva ed altri episodi del genere.

L’aspetto interessante in questo stato di cose era comunque il comportamento di molti arabi che erano stati le persone di fiducia di alcune famiglie ebraiche. Erano loro a capeggiare le folle alla ricerca di protettori, erano loro che, al corrente dei piccoli segreti, quali l’indirizzo della casa in campagna o della seconda abitazione, tentavano di stanare gli assediati per metterli a morte. Comunque, dopo pochi giorni, l’intero atteggiamento della popolazione araba mutò completamente: passato il momento del progrom, i cosidetti “fidati” miravano ad impossessarsi dei beni dei loro precedenti datori di lavoro. Convinti che per gli ebrei era comunque finita, erano sicuri che avrebbero potuto mettere le mani sulle loro attività economiche e sulle loro ricchezze.

Muftah, preso sotto l’ala protettrice di mio padre all’età di sei anni, Muftah che tutto sapeva di noi, Muftah che mi portava a fare lunghe passeggiate sul lungomare quando, bambino, ero stato affetto da una malattia ai bronchi, Muftah che godeva di un tenore di vita di gran lunga superiore a quello degli altri operai delle nostre aziende, Muftah che aveva acquistato la casa con prestiti di cui mio padre non si sarebbe mai permesso di chiederne la restituzione, Muftah quindi era quello che aveva organizzato gruppi di nostri operai alla ricerca dei componenti della nostra famiglia per farli a pezzi. Questo, in breve, era lo spirito che animava le folle arabe nei giorni successivi al grande pogrom.

Il governo libico, sotto la guida del saggio sovrano Idris, dopo aver ammassato parte della popolazione ebraica in campi di raccolta, ammettendo di non poter difendere i propri cittadini ebrei, permise di avviare un ponte aereo con cui l’intera comunità ebraica fu in meno di un mese trasferita a Roma, permettendo ad ogni persona di portare con sé, oltre a qualche valigia, anche ben cinquanta sterline. All’aeroporto, in partenza, comunque, i gioielli e gli oggetti di valore venivano confiscati.

In tutta la storia di duemila anni di persecuzioni ebraiche, questo fu un dei pochissimi casi in cui un paese riuscì, in un sol colpo, a liberarsi per sempre di tutta la sua popolazione ebraica.

Forse solo la Spagna di Isabella riuscì nello stesso intento, ma solo formalmente, poiché si trascinò per secoli i nuovi cristiani che giunsero alle vette di tutte le gerarchie, ora finalmente accessibili, e i marrani, di cui non riuscirono mai a liberarsi.

Nell’Ottocento, in Europa, una delle pene più terribili che venivano comminate, oltre alla pena capitale e all’ergastolo, consisteva nell’esilio a vita ed il sequestro di tutti i beni. Le comunità ebraiche di Tripoli e Bengasi, Libia, furono condannate, collettivamente, a questa pena, ree di aver voluto professare la propria religione e mantenere le proprie tradizioni.

L’esilio fu avviato dal benevolo e tollerante Idris ed il sequestro totale fu sancito da Gheddafi, un paio d’anni più tardi, quando rovesciò la monarchia, sigillando una volta per sempre il “transfer” di una intera comunità.

Il ritornello più stupido che gli ebrei libici avevano amato ripetere, in tempi non molto lontani, era che “fintanto che fosse vissuto questo buon re, nulla avrebbero avuto da temere”.

Il blog di Barbara

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  • #1Emanuel Baroz

    Libia, 1967: il pogrom degli ebrei. David Meghnagi ricorda

    http://www.brogi.info/2011/02/libia-1967-il-pogrom-degli-ebrei-david-meghnagi-ricorda.html

    11 Giu 2014, 20:59 Rispondi|Quota
  • #2Emanuel Baroz

    11 Giu 2014, 21:00 Rispondi|Quota
  • #3Emanuel Baroz

    11 Giu 2014, 21:00 Rispondi|Quota
  • #4Emanuel Baroz

    L’esodo ebraico dalla Libia: racconti, documenti, testimonianze

    Il pogrom e l’esodo dei 40 mila ebrei libici

    http://ideadiversa.blogspot.it/2011/04/lesodo-ebraico-dalla-libia-racconti.html

    11 Giu 2014, 21:01 Rispondi|Quota
  • #5Lucky Nahum

    Chiedo scusa se non ho capito chi sia l’autore, Emanuel Baroz oppure Dani Mimun. Chiunque sia, vorrei chiedere il permesso di tradurlo, quando posso, in Inglese. Vorrei postarlo sulla mia pagina del Facebook, ma la maggior parte dei miei “amici” non capiscono l’Inglese. Poi, tanti dei Libici, che dovrebbero leggerlo, anche loro, per la maggiorate leggono l’Inglese.
    Aspetto un vostra risposta, grazie,
    Lucky Nahum

    8 Giu 2015, 19:58 Rispondi|Quota
    • #6Emanuel Baroz

      l’autore dell’articolo è Dani Mimun, a cui vanno girati tutti i compolimenti del caso per aver saputo raccontare una parte di storia sconosciuta ai più in maniera così chiara ed interessante. Per quanto riguarda la traduzione fai pure, ci mancherebbe altro! 😉

      8 Giu 2015, 20:49 Rispondi|Quota
  • #7Daniel

    4 Nov 2015, 00:12 Rispondi|Quota
  • #8Emanuel Baroz

    Il ricordo dei profughi… ebrei dalla Libia

    di Citizen Writers

    Riceviamo da Paola Farina e pubblichiamo

    Ogniqualvolta leggo che i profughi contestano, la mia mente ritorna al mio vissuto e ringraziando D-o per essere cresciuta “sana dentro e ricca di esperienze che gli altri non hanno”, rimango però basita dai “profughi o rifugiati” che contestano l’accoglienza e che vantano mille pretese supportate dai buonisti che vogliono aiutarli con contributi pubblici. Siamo lontani mille anni luce dai valori della vera accoglienza.

    Non sono contraria all’accoglienza, ma sono contraria a quest’accoglienza, per il modo in cui è fatta, proclamata, politicizzata e sponsorizzata. In trecento hanno manifestato a favore – a Vicenza – alcuni giorni fa; bene, allora in città dovrebbero esserci 200/300 posti letto per i profughi messi a disposizione dai dimostranti, senza alcuna obiezione o scusante. E senza clamore perché è nel silenzio che sia la carità cristiana, sia quella ebraica vanno concepite e materializzate. L’accoglienza si fa con il proprio cuore ed i propri mezzi o non si contesta chi proprio non la vuole. Tutto il resto, chiunque lo faccia o lo predichi è un mix di protagonismo politico-partitico, campagna pubblicitaria personale, associazionismo cointeressato, marketing e mera comunicazione!

    Ricordo quando, nel 1967, gli Ebrei vennero in Italia come rifiugiati politici, perché espulsi dalla Libia. Non voglio paragonare quell’esodo a quello che stiamo vivendo ora, gli Ebrei sono stati cacciati dalla Libia, i nuovi profughi partono spontaneamente, ci sono condizioni e pretese diverse, ma chi scappa da un paese deve pur sempre capire che l’accoglienza è un dovere morale, ma non un obbligo e non si possono imporre diktat.

    Dopo la guerra dei Sei Giorni nel 1967, re Idris I fu costretto a cacciare gli ebrei dalla Libia, gran parte della comunità (circa 6.000 persone) approdò a Roma, molti erano italiani, avevano frequentato in Libia le scuole italiane e avevano lavorato per aziende italiane. In Italia non furono accolti come “profughi”, status che forse avrebbero preferito per via di alcuni benefici che comportava, ma come “rifugiati” sotto l’egida dell’Alto Commissariato dell’Onu. In Libia, gli ebrei hanno lasciato beni per una somma totale che oggi si aggirerebbe intorno agli 1,6 miliardi di euro. Avevo 13 anni, ero una bambina difficile (non sono migliorata nel frattempo) e contestatrice ed i segni del ripudio della religione cristiana per far spazio all’altra parte delle mie radici stavano diventando sempre più forti ed intollerati da mio padre. Per scemare un clima di tensione familiare e nell’inutile tentativo di farmi comprendere quanto fosse difficile essere ebrei, uno zio mi propose di andare a Roma con lui “a fare una cosa nuova”, a ricevere non so chi. A Roma ci fermammo due o tre giorni, ospiti di un lontano parente e l’indomani del nostro arrivo andammo all’aeroporto ed ho un ricordo bellissimo “una miriade di persone atterrò in prossimità di Roma” (altri esseri umani arrivarono via mare) e parecchi ebrei autoctoni e libici già residenti avevano fatto squadra per dare la prima accoglienza, scoprivo per la prima volta le organizzazioni mondiali ebraiche e ne rimasi coinvolta (tutte private e fatte di volontariato sano, spesso autogestito) che collaboravano per la “prima assistenza”. A un amico di mio zio, gli fu subito concessa una sola stanza per tutta la sua famiglia, ben sette persone “grandi”, che rimasero lì per un breve periodo, per poi spostarsi in affitto in un’altra stanza, un po’ più grande con uso cucina, all’interno di un appartamento privato ed anche lì dormirono in sette persone, perché fortunatamente non era morto nessuno. Ad un altro amico invece gli fu proposto di andare in un campo di accoglienza con tutta la famiglia composta da un numero indefinito di bambini ed accettò non sapendo che sarebbe andato all’inferno. Naturalmente dopo l’ennesimo esodo di ebrei, gli italiani “si sono comportati bene”, hanno aperto i campi di Latina e di Capua per i rifugiati, in quasi 5000 andarono inizialmente nei campi (e non c’erano abituati, si trattava di persone spesso benestanti, eppure ci sono andati), gli altri erano ospiti da parenti o amici e chi aveva un minimo di possibilità finanziarie, cercava una sistemazione autonoma.

    Dopo il primo viaggio a Roma, rientrato a Vicenza mio zio parlò con alcune persone della città che avevano origini ebraiche, che non erano più ebrei a causa delle persecuzioni razziali subite durante la guerra, con alcuni ex bersaglieri e si ritrovarono all’allora trattoria “Il Bersagliere” per raccogliere donazioni spontanee per aiutare una persona conosciuta durante la Campagna d’Africa (di cui non ho mai saputo il cognome o forse non lo ricordo, ergo il bene si fa nel silenzio totale); cosa che mi rese felice perché oltre al bene, prometteva un altro viaggio. E di nuovo con mio zio andai prima a Roma e poi a Capua. Mi si spezzò il cuore quando vidi quel “campo profughi” come lo chiamavano, era la cosa più straziante che io avessi visto, perché a quell’età non avevo ancora visto i campi di concentramento nazisti. Le stanze al posto del pavimento erano di terra battuta, c’erano reti di letto anche senza materasso, non c’era acqua corrente, c’erano topi, ragni, insetti di ogni tipo: un piccolo ed orribile zoo di invertebrati e ratti di ogni taglia. Tugurio accettato come una benedizione di D-o perché si fuggiva davvero, ancora una volta, da una persecuzione razziale. In quelle baracche nessuno poteva offrirmi nulla da mangiare, ma ricordo di essere stata accolta da grandi abbracci, tante carezze anche da bambini più piccoli di me, dai quali ho accettato da schizzinosa le loro effusioni, forse ne avrei fatto volentieri a meno, all’epoca non avevo ancora capito l’importanza di una grande famiglia unita ed di una carezza….Una signora (che avrebbe dovuto essere la moglie dell’amico di zio, lui non c’era in baracca perché era andato nei campi a raccogliere verdura) raccontò della paura e dei pianti dei suoi figli, di acqua piovana che entrava dalle finestre senza vetri, di grida, di parolacce e di altre persone probabilmente dall’est che si drogavano, ubriacavano e probabilmente “puttanavano” …non continuò il discorso perché fu zittita con un’occhiata da mio zio. I soldi raccolti da questo gruppo di amici vicentini e romani, quasi cinquanta anni fa, furono destinati a quella famiglia, che si spostò prima in una misera pensione nelle vicinanze di via Urbana, vicino alla Stazione Termini, ma non tanto amata dal gestore dovette andarsene, alla fine trovò un appartamento verso Centocelle, ci rimase poco e fece l’Aliyah (emigrazione ebraica in Israele).

    In seguito, dieci-quindici anni dopo cominciai a frequentare più intensamente la Comunità ebraica romana tripolina, e ne rimasi affascinata, perché il mio ricordo “italiano” era fermo alla baraccopoli di Capua ed invece i miei nuovi amici – che sono tuttora parte integrante della mia vita – vivevano nei quartieri buoni Monteverde, Montemario, Parioli, Prati, Aventino, delle Vittorie e parlavano tutti almeno tre-quattro lingue. Avevano negozi nelle vie buone ed erano clienti di un’azienda dove allora lavoravo. La maggior parte delle persone è partita dalla Libia con la valigia di cartone, alcune solo con i vestiti che indossavano. In circa 2.000 sono rimasti a Roma, gli altri hanno scelto Israele o altri paesi. Le persone rimaste a Roma come quelle che se ne sono andate, si sono perfettamente integrate e fortunatamente hanno procreato e dato vita a nuove generazioni, che io amo, quanto amo i loro padri e le loro madri. In famiglia mi hanno insegnato che quando si offre si deve dare senza chiedere nulla e quello che è offerto deve essere accettato come dono di D-o. Non ho mai indagato se i miei amici di ora sono parte di quei mocciosi del campo di Capua o dei “ sette adulti”, consapevole che bisogna ricordare il passato solo come retaggio culturale e affettivo.

    http://www.vicenzapiu.com/leggi/il-ricordo-dei-profughi-ebrei-a-vicenza

    4 Nov 2015, 16:27 Rispondi|Quota
  • #9Emanuel Baroz

    Cosa ci insegnano gli ebrei di Tripoli

    Un libro ripercorre la parabola della comunità giudaica libica: dagli ottomani al fascismo, fino alla cacciata. Ed è una lezione di pace e tolleranza

    di Roberto Saviano

    Le stime ufficiali parlano di 856 mila ebrei che hanno abbandonato le proprie case, le proprie città, i propri paesi. Ebrei che si sentivano e si definivano «ebrei arabi» perché l’arabo era la loro lingua, perché da secoli le loro radici erano piantate in quelle terre di sole, deserto e mare che vanno dal Medioriente fino al Maghreb. Iraq, Siria, Iran, Libano, Tunisia, Marocco, Egitto, Algeria, Yemen, Tunisia, Aden, Libia: paesi che avevano grandi comunità ebraiche vive e fiorenti, formate da commercianti, artigiani, rabbini, studiosi, medici, amministratori, comunità di 30 mila o di 150 mila ebrei che oggi non esistono quasi più, frantumatesi nell’esilio seguito alle persecuzioni e alle discriminazioni montate dopo il 1948, dopo la nascita dello Stato d’Israele.

    Il libro “Tramonto libico” è legato a una di queste storie, alle vicende degli ebrei di Libia. Ebrei che vivevano in quelle terre prima ancora che venissero chiamate Libia proprio da noi, colonizzatori italiani. Si presume che i primi ebrei siano giunti in quel territorio allora chiamato Barberìa e abitato dai «barbaros», «balbuzienti» (i greci così chiamavano tutte le popolazioni che non parlavano la loro lingua), dopo la distruzione del primo tempio di Gerusalemme nel 586 a. C.

    Da allora e fino al 1967, anno in cui iniziano le vicende di questo libro, gli ebrei hanno testimoniato ogni nuovo conquistatore, hanno combattuto insieme ai berberi contro gli eserciti di Maometto, hanno contribuito alla crescita della regione durante l’impero ottomano e poi nel periodo di colonizzazione italiana, si sono talvolta mescolati con la popolazione locale con matrimoni e conversioni, ma hanno sempre mantenuto le proprie tradizioni e il legame saldo con la propria fede perseverando nell’osservanza dei precetti religiosi.

    Un esempio drammatico di quanto l’osservanza fosse radicata tra gli ebrei di Libia è rappresentato dall’episodio della pubblica fustigazione di tre ebrei che si erano rifiutati di tenere aperti i propri negozi di Shabbàt obbedendo al provvedimento fascista che ne vietava l’apertura.

    All’inizio del Novecento solo a Tripoli si contano ben 44 sinagoghe, indice di una vita ebraica fervente e di una comunità profondamente religiosa. Il periodo fascista portò con sé anche l’onta delle leggi razziali. Nonostante che il 18 marzo del 1937 Mussolini sbarcato a Tripoli dichiarasse: «L’Italia considera gli ebrei sotto la sua tutela, nessuna discriminazione razziale o religiosa è nella mia mente, restando fedele alla politica di eguaglianza di fronte alla legge e di libertà di culto», nel luglio dell’anno seguente veniva pubblicato il «Manifesto della razza» che sanciva le discriminazioni degli ebrei ponendoli in una situazione di inferiorità anche rispetto alla popolazione musulmana. Con lo scoppio della guerra, circa tremila ebrei verranno reclusi in un campo di prigionia e tre uomini, accusati di collaborare con gli inglesi, saranno fucilati. La situazione di discriminazione durerà fino allo sbarco degli Alleati e della brigata ebraica che libereranno la Libia dagli italiani.

    Ma per gli ebrei libici la liberazione non significherà un nuovo periodo di pace. L’ascesa del sionismo e il rafforzamento del panislamismo sprigioneranno le energie latenti e distruttive che covavano nei recessi delle masse arabe e sfoceranno in ripetuti pogrom e attacchi ai quartieri ebraici. Poi, la fondazione dello Stato d’Israele e in seguito la Guerra dei Sei Giorni faranno scoppiare la rabbia araba che porterà a nuovi episodi di sangue e alla cacciata degli ebrei libici dal proprio paese, alla fine di una storia durata più di duemila anni.
    Il libro di Raphael Luzon è un libro sincero e pacato. Egli sceglie alcuni ricordi, ma è consapevole che la memoria è ingannevole e che quindi non può essere una prova per affermare delle verità assolute, né uno strumento al servizio di pulsioni ideologiche. Mi sembra che Luzon abbia aperto il grande vaso della memoria prima di tutto per fini terapeutici, per lenire le ferite personali dell’esilio, per dare sollievo alla nostalgia per la sua terra madre, una nostalgia che vive tra le righe di tutte le pagine del libro.

    Un’altra motivazione di “Tramonto libico” è poi la ricerca della giustizia. Apprendiamo dell’assassinio delle famiglie Luzon e Raccah di Tripoli, un crimine a cui non è mai seguito un processo né una condanna; né un funerale per le vittime innocenti. Senza rabbia, senza desiderio di vendetta, Raphael Luzon vuole raggiungere proprio questi obiettivi: un processo, una condanna, dei funerali; in altre parole, la giustizia.
    Questa aspirazione, frustrante e dolorosa perché di difficile realizzazione, accompagna tutte le parole del libro perché è come un macigno nell’anima di chi stava scrivendo.

    Oltre ai ricordi, in forma onirica, di squarci di vita ebraica a Bengasi, oltre alle vicende intime di Raphael e al suo impegno politico per riallacciare i rapporti tra l’ebraismo libico e lo stato libico, mi ha colpito il modo costruttivo e aperto di Luzon nell’affrontare l’altro, l’opinione diversa e il suo desiderio profondo di riconciliazione, di dialogo tra i popoli e tra le religioni; un dialogo che non passa attraverso le rinunce sui valori e sulle identità, ma sull’accettazione dell’altro e sulla disponibilità a guardare chiunque negli occhi, a discutere con tutti da pari a pari.

    Ho poi scoperto che l’attività politica di Luzon per la conservazione della memoria dell’ebraismo libico e per il mantenimento del legame degli ebrei libici con la propria patria prosegue da anni in un fervido confronto tra ebrei, musulmani e cristiani che non vogliono arrendersi all’estremismo. E pensando all’amore e all’impegno di Luzon per la Libia non si può fare a meno di pensare alle condizioni in cui versa oggi il paese e alle parole dolenti verso la fine del libro: «Forse, se non aveste cacciato i vostri fratelli ebrei tanto tempo fa, forse oggi la Libia non sarebbe il cumulo di sofferenze che sta diventando, forse…».

    “Tramonto libico” è un libro breve, scritto in modo scorrevole, e dunque si legge molto in fretta. Consiglio al lettore di soffermarsi, tenerlo un po’ più a lungo tra le mani, risfogliarlo e rileggere alcuni passi, perché nelle parole di Luzon possiamo talvolta trovare l’ispirazione per intraprendere un cammino di pace e di memoria.

    http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2015/10/30/news/cosa-ci-insegnano-gli-ebrei-di-tripoli-1.236758

    4 Nov 2015, 16:28 Rispondi|Quota